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Israele più isolato? Palestina indipendente

di Moisés Naím

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28 aprile 2010

Cosa succederebbe se la Palestina dichiarasse la propria indipendenza? Non è una congettura, né uno scenario improponibile. Salam Fayyad, il primo ministro palestinese, ha dichiarato che ciò accadrà qualora non si dovesse raggiungere un accordo con Israele.
A Washington e in altri centri di potere si fanno insistenti le voci secondo cui la dichiarazione d'indipendenza della Palestina rappresenterebbe una possibilità reale e imminente. In virtù dell'isolamento internazionale di Israele, del deterioramento del suo rapporto politico con gli Usa e della popolarità della causa palestinese nel mondo, un numero consistente di paesi si affretterebbe a riconoscere il nuovo Stato.

Lo stallo del processo di pace, la mancanza di una road map credibile che offra una speranza di sviluppo nei rapporti tra palestinesi e israeliani, l'inconsistenza della mediazione di George Mitchell, l'inviato statunitense per il Medio Oriente nominato dal presidente Obama due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, e soprattutto la debolezza politica tanto del governo israeliano quanto di quello palestinese sono alcune delle condizioni che rendono plausibile la possibilità di una dichiarazione unilaterale d'indipendenza da parte palestinese. Questo non risolverebbe il problema, ma senza dubbio cambierebbe la situazione.

Una delle componenti che hanno contribuito a rendere plausibile lo scenario è la frammentazione politica interna d'Israele e le conseguenze che questa situazione ha generato in termini di isolamento internazionale. Teoricamente, la democrazia suggerisce la presenza di governi che rappresentano la volontà e le preferenze della maggioranza degli elettori. In pratica, succede che a volte gli interessi difesi dal governo non siano quelli dei gruppi più numerosi ma di quelli che più si fanno sentire. L'irruenza di alcuni tra i suoi sostenitori può far sì che un gruppo politico acuisisca un'influenza di gran lunga superiore a quella giustificata dal numero dei suoi membri. È ciò che da tempo succede in Israele, dove le politiche nazionali sono imposte da gruppi religiosi conservatori, coloni e frange estremiste che impongono le loro priorità e non quelle della maggioranza. Durante una recente visita di Joe Biden, vicepresidente degli Usa il cui obiettivo era quello di promuovere i negoziati con la Palestina, il governo d'Israele ha autorizzato la controversa costruzione di 1.600 abitazioni a Gerusalemme est. «Nell'assistere a questo sviluppo mi sono chiesto se i suoi leader credano che la sopravvivenza d'Israele sia minacciata da un Iran con la bomba atomica», mi ha confidato un alto funzionario della Casa Bianca. «Siamo il principale alleato d'Israele, e senza di noi non si riuscirà a impedire che l'Iran sviluppi armi nucleari. Mentre noi ci sforziamo di ottenere l'appoggio di Cina e Russia per imporre sanzioni all'Iran, i politici israeliani sembrano interessati solo a costruire più case per alcuni coloni». Un'altra interpretazione di questo incidente è che coloni e politici che li rappresentano hanno ben compreso la burocrazia israeliana e riescono a manovrarla in modo miope per raggiungere i propri obiettivi, senza considerare quelli più importanti della nazione.

Secondo questa prospettiva, il primo ministro Benyamin Netanyahu sarebbe rimasto sorpreso dall'autorizzazione concessa per la nuova costruzione tanto quanto lo stesso Biden. Una minoranza irruente indirizza il paese verso una rotta non condivisa dalla maggior parte degli israeliani, che, infastiditi dalla politica e delusi dai leader, godono dell'incredibile successo economico del paese e della drastica riduzione degli attacchi terroristici seguita alla costruzione del muro che circonda i territori palestinesi. Hanno abbandonato il destino politico del paese in mano a estremisti che non li rappresentano.

Tutto ciò ha un costo all'esterno d'Israele e l'isolamento è aumentato: in alcuni paesi, fornirgli appoggio politico è diventato più costoso, al contrario di una più proficua difesa della causa palestinese. Perciò la dichiarazione unilaterale d'indipendenza è per i palestinesi un'idea fattibile e invitante. È un gesto che promette in teoria più di quanto può mantenere nella pratica. Secondo Daniel Levy, un israeliano che ha partecipato a molti negoziati con i palestinesi, «il problema non è tanto la dichiarazione d'indipendenza, quanto ciò che succede il giorno dopo». L'indipendenza non risolve il problema della divisione dei palestinesi in due fazioni in guerra tra loro. Né consente di compiere apprezzabili progressi in alcuno dei tre spinosi problemi sui quali deve negoziare con Israele: confini, Gerusalemme e ritorno dei rifugiati palestinesi. E neppure riduce le ambizioni dell'Iran sul controllo della Palestina. Ma potrebbe produrre quello che questa minuscola area del pianeta genera in grandi quantità: speranze che si trasformano in frustrazioni.

(Traduzione di Graziella Filipuzzi)

28 aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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