Diciamoci la verità: la fedeltà delle mogli degli arbitri di calcio è da così tanto tempo messa in dubbio da milioni di tifosi che quasi nessuno ci fa più caso. Tuttavia, negli ultimi tempi la categoria arbitrale è sotto un tiro incrociato finora inaudito. Già Calciopoli ne aveva seriamente danneggiato la reputazione, oggi sembra che non vi sia turno di campionato nel quale non si commettano errori gravissimi che rischiano di falsare l'esito del torneo e che fanno risorgere le velenose accuse di sudditanza psicologica nei confronti degli uni e di persecuzione e pregiudizi nei confronti degli altri.
Il mite Prandelli, colpito da infauste decisioni pure in ambito internazionale, è diventato una furia. Lo showman Mourinho, che non avrebbe mai fatto in Inghilterra il gesto delle manette davanti alle telecamere nemmeno se l'arbitro avesse espulso quattro giocatori del Chelsea per il loro taglio di capelli, tace sornione in attesa di ridare fuoco alle polveri.
È vero, non c'è più Collina ad arbitrare e gli eredi sembrano di caratura inferiore, ma è possibile che siano diventati tutti incapaci d'intendere e di volere? Ebbene, escludendo per un momento le tesi più maliziose (benevolenza verso alcuni, dolosa avversione verso gli altri), uno dei problemi degli arbitri sta nel loro assetto istituzionale, assetto che condividono con molte altre categorie italiane.
Il mondo dei fischietti è strettamente autoreferenziale: l'Associazione italiana arbitri (Aia), organismo interno alla Federazione italiana giuoco calcio, riunisce obbligatoriamente tutti gli arbitri italiani che dirigono gare ufficiali. Qui si nota un primo difetto, vale a dire la struttura monopolista dell'offerta. Le squadre di Serie A non potrebbero, ad esempio, accordarsi tra di loro al fine di designare dei bravi arbitri stranieri per condurre una o più partite.
La concorrenza è solo interna alla struttura dell'Aia. La quale è complicatissima: se uno si avventura a leggere i suoi statuti e regolamenti ha l'impressione di trovarsi di fronte a un'organizzazione tipo il partito comunista cinese per complessità e procedure. Alla fine, però, la sostanza è che il responsabile della Commissione arbitrale per la A e la B, attualmente Collina, ex-arbitro lui stesso, ha un potere molto pervasivo nel designare i conduttori di gara e determinarne la carriera nazionale e internazionale. Ora, Collina è certamente un uomo d'onore, ma come tutti gli esseri umani ha le sue idiosincrasie, preferenze, fissazioni e in più è un interno della sua "casta". Può, da un punto di vista astratto, essere contemporaneamente uno spassionato governatore e giudice dei suoi ex colleghi? Difficile affermarlo.
La struttura monopolista dell'Aia la rende, poi, naturalmente refrattaria all'innovazione. È vero che le regole le fa la Uefa, ma innovazioni tecnologiche che sminuiscano il ruolo dell'arbitro saranno ovviamente osteggiate dalla categoria. È la storia del tacchino che non può vedere con piacere il pranzo di Natale.
Se si adottasse una assetto più competitivo, aperto quindi alle innovazioni, si responsabilizzassero le squadre nella scelta dei fischietti (come fanno le parti di un contenzioso che si scelgono il collegio arbitrale) e si adottassero delle procedure che prevedono l'intervento di terzi nel giudicare le performance degli arbitri, sarebbe più difficile per presidenti e allenatori prendersela con i magistrati talebani... Scusate, intendevo dire gli arbitri, ma l'autoreferenzialità, appunto, non è solo una loro caratteristica...
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