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SCIENZA ECONOMICA / Keynes attento ai tuoi nipotini

di Roberto Perotti

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28 Febbraio 2010

Quando vado a un convegno internazionale di economia, vedo lavori scientifici in cui si tenta di capire cosa succede, per esempio, se si aumenta la spesa pubblica di x punti percentuali. Di quanto sale il consumo? Chi ne beneficia di più, i più poveri o i più ricchi, i più giovani o i più anziani? Che cosa succede agli investimenti privati? Domande forse noiose ma concrete, e fondamentali per tentare di fornire una guida alla politica economica.

È molto difficile incontrare un economista keynesiano tradizionale (uso questo termine per brevità, ma impropriamente perché comprende anche per esempio i neoricardiani, e senza alcuna accezione pregiudiziale negativa contro Keynes, Ricardo o la tradizione) con cui poter parlare di questi argomenti in questi termini, con numeri e percentuali, e della metodologia più adeguata per affrontarli.

Spesso la risposta a queste domande (se mai vengono poste) viene cercata non confrontandosi con i dati, ma in un'esegesi infinita di ogni virgola scritta da Keynes, Kaldor o Sraffa, oppure in complicate digressioni filosofico-moraleggianti sulle supposte motivazioni ideologiche e mancanze etiche dei presunti oppositori.

Keynes fu uno dei grandi geni del XX secolo; uno dei suoi contributi più importanti consiste nell'evidenziare il ruolo della spesa pubblica come strumento anticiclico. Ma la teoria di Keynes era solo una delle tante possibili. L'unico modo per tentare di decidere fra ragionevoli teorie alternative è rivolgersi ai dati, non organizzare convegni in cui discutere che cosa intendeva veramente dire Keynes nel secondo paragrafo di pagina 12 della prima edizione del suo tal libro.

Il fatto è che pochissimi degli economisti keynesiani tradizionali che, in Europa e soprattutto da noi, si agitano tanto per proclamare la bancarotta degli altri economisti si sono mai sporcate le mani con i dati. È dunque sorprendente che i keynesiani tradizionali accusino gli economisti più formalizzati di essere preda di modelli matematizzati e astratti, e quindi di essere incapaci di capire il mondo reale: ho sempre pensato che fosse vero esattamente l'opposto.

L'accusa è rivolta non a tutti gli economisti, ovviamente, ma solo a quelli variamente e confusamente denominati come "neoliberisti", "iperliberisti", "neoclassici" o "dogmatici". Questi termini, solitamente intesi in senso denigratorio, vengono spesso applicati indistintamente a tutti gli economisti "formali", cioè quegli economisti che usano modelli matematici più o meno complessi, inclusi molti che si ritengono vicini a Keynes, come per esempio il direttore del dipartimento di ricerca dell'Fmi Olivier Blanchard.

La distinzione fra economisti formali e keynesiani più tradizionali dunque non è ideologica, ma metodologica. Contrariamente a quanto si crede, molti (anche se non tutti) i macroeconomisti formali cercano di capire come funziona il mondo, e di proporre soluzioni a problemi concreti. L'uso della matematica e di strumenti statistici sempre più sofisticati è dovuto alla necessità di affrontare un problema metodologico di fondo, che non è né di sinistra né di destra, ma inerente a un'indagine non sperimentale che studia sistemi non meccanici.

Esso deriva dal fatto che per capire e per proporre soluzioni è necessario individuare dei nessi causali. Ma in macroeconomia è praticamente impossibile produrre esperimenti; bisogna quindi partire dalla correlazione statistica fra variabili. Per passare da questa alla causalità occorre interpretare i dati, cioè occorre un modello. Più sono gli aspetti della realtà che si vogliono cogliere, cioè più realistica l'analisi, più complicato il modello: esattamente l'opposto della critica che viene mossa agli economisti formali (spesso da chi ignora questi sviluppi dell'economia).

Non pretendo che queste problematiche metodologiche appassionino il lettore, ma purtroppo è da qui che bisogna partire se si vuole cominciare a capire problemi concreti quali l'effetto della spesa pubblica sull'attività economica, e darne una valutazione quantitativa. Certamente, in alcuni casi, degli economisti formali discettano sul sesso degli angeli con modelli puramente teorici incredibilmente complicati. Ma, sempre per rimanere nel tema della spesa pubblica, chiunque guardi con mente aperta agli sviluppi dell'economia formale degli ultimi 30 anni vedrebbe un enorme dibattito metodologico fra persone ragionevoli, e un'enorme messe di studi empirici, molti dei quali consistenti con la teoria di Keynes, altri meno.

Non arriveremo mai a una risposta definitiva accettata da tutti, ma è molto più produttivo discutere costruttivamente come fare meglio questo lavoro, piuttosto che continuare a discettare se Kahn o Kaldor avessero detto questo o quello prima di Keynes, o lanciare strali contro persone di cui si ignora la ricerca e la metodologia.

Il livore e il pregiudizio, insieme (diciamo così) al mancato aggiornamento sugli sviluppi della ricerca economica, sono tali che molti keynesiani tradizionali non si sono nemmeno accorti che l'Fmi, a lungo considerato la cittadella dell'odiato "Washington consensus" neoliberista, oggi è diventato un bastione del keynesismo, sotto la guida di Olivier Blanchard, uno dei più grandi economisti moderni.

  CONTINUA ...»

28 Febbraio 2010
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