Mentre accademici e riviste decidono se celebrare o meno il funerale della Scuola di Chicago, sul ring americano dello scontro tra neoliberisti e keynesiani arriva un terzo incomodo: Joseph Schumpeter, pilastro di Harvard e maestro di Paul Samuelson.
Nell'archeologia dei protettori economici (Keynes scriveva: «Gli uomini d'azione che credono di essere immuni da influenze intellettuali spesso sono gli schiavi inconsapevoli di qualche economista defunto») a celebrare l'autore della Teoria dello sviluppo economico è l'ultimo lavoro della storica americana Joyce Appleby: The relentless revolution.
Lontana anni luce dallo spirito di Adam Smith e di chi vede nel capitalismo un'appendice della natura umana, Appleby, che ha dedicato la sua carriera a studiare le radici del libero mercato nel mondo anglosassone, definisce il capitalismo un sistema culturale. Secondo la professoressa dell'Università della California, rivoluzione industriale e democrazia non c'entrano: il modello capitalistico si è imposto grazie a una nuova mentalità che ha spinto gli investitori privati a mandare in soffitta valori e costumi vecchi di 4mila anni in nome del profitto. Da allora un processo incessante, che Schumpeter definì di «distruzione creatrice», ha attraversato dittature, guerre e crisi globali, con un'unica certezza: il capitalismo si rigenera sempre.
«Non si può considerare il capitalismo un semplice sistema economico - spiega, per niente turbata dalle polemiche che hanno accolto il suo libro, l'ex presidente dell'Organization of American Historians -, ha creato nuove categorie culturali, stimolato nuovi gusti e introdotto un vocabolario completamente nuovo per discutere dell'impatto che l'imprenditoria privata ha sul benessere della società».
Ed è qui che il "leviatano industriale" della Appleby incontra l'imprenditore di Schumpeter. Nell'approccio dinamico dello sviluppo - l'alternarsi "naturale" di recessioni ed espansioni - del troppo spesso incompreso economista austriaco, l'imprenditore, con la sua propensione naturale all'innovazione e al profitto, s'identifica chiaramente come leader del cambiamento. Così la Appleby ci spiega che per entrare in nuova fase «creativa» bisogna investire nei settori dell'innovazione: «Information Technology, energia verde robotica». E chi se non gli imprenditori possono farlo?
La storica riconosce che l'approccio scelto da molti governi per gestire la crisi, Stati Uniti in primis, è stato però quello di keynesiana memoria: «Durante la Grande Depressione, Keynes affermava che dovevano essere i governi a spendere per stimolare i consumi e favorire l'occupazione. Una tesi che andava contro l'idea dell'autoregolamentazione del mercato e che è stata fatta propria da molti per combattere la crisi». Al contrario di quello che si potrebbe pensare, Appleby non è contro le regole e la politica. È anzi convinta che - dal colonialismo europeo in Africa e Asia (che ha esportato l'economia di mercato) fino al sostegno al colosso informatico Ibm - i governi abbiano spesso favorito il diffondersi di una mentalità capitalistica. Regole comprese.
Per Vera Zamagni, docente di storia economica a Bologna, The relentless revolution è «l'ennesimo tentativo del capitalismo americano di salvare se stesso, sottolineando che anche da una crisi terribile può venire fuori qualcosa di buono». Più morbido l'approccio dello storico Massimo Teodori, secondo cui «il pensiero di Schumpeter è attuale perché lega lo sviluppo economico alle trasformazioni sociali e istituzionali e al progresso delle tecnologie introdotte dagli operatori nelle diverse epoche»; mentre per Franco Amatori, presidente della Fondazione per la Storia e gli Studi sull'Impresa, «è facile affermare "Siamo tutti schumpeteriani", ma è quando si passa dalle buoni intuizioni a strutturare una politica economica che si rivela tutta la sua debolezza».
Fatto sta che mentre l'esercito degli interventisti arruola nuove leve (dopo la ripubblicazione dell'Orrore economico di Viviane Forrester sta per uscire il nuovo attacco al capitalismo di Serge Latouche L'invenzione dell'economia) anche i sostenitori del free market non scherzano. Non bastava la riabilitazione di Ayn Rand, definita dall'Economist «martire ed eroina del capitalismo»: a fare compagnia a Eugene Fama, Carl Schramm e compagni è arrivata la signora Appleby.