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LA STORIA E IL PRESENTE / L'Italia è una sola ma che fatica

di Miguel Gotor

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28 Marzo 2010

Centocinquanta anni meno uno: è iniziato nei giorni scorsi il conto alla rovescia per le celebrazioni dell'unità di Italia. Il nostro paese arriva all'appuntamento stanco e sfiduciato, avviluppato in un mediocre e litigioso presente e, quel che è peggio, all'apparenza incapace di progettare il proprio futuro.

Le ragioni sono diverse, due le principali. Anzitutto, la difficoltà di immaginarsi dentro un nuovo scenario mondiale in cui il ruolo e lo spazio dell'Italia saranno necessariamente inferiori a quello di media potenza degli ultimi 60 anni. Un dato di fatto che dipende dall'energico galoppare economico e tecnologico di altri protagonisti globali, dalla Cina, all'India, al Brasile, che stanno già spostando le gerarchie fra le nazioni e consolideranno le loro posizioni. Le scelte fondamentali degli ultimi 60 anni, la Repubblica, la Costituzione, l'Atlantismo, l'Europa, indicano una linea di marcia feconda e progressiva, ma non più sufficiente ad arrestare la curva di un declino che ci riposizionerà, in breve tempo, al di sotto degli standard cui eravamo abituati.

In secondo luogo, dal modo incivile con cui stiamo insieme da ormai quasi vent'anni, avvinghiati all'alibi della "lunga transizione", un modo che ha favorito l'affacciarsi di una scissione silenziosa che non riconosce più l'Italia come pensiero e come azione. Di là dai fermenti, separatisti saggiamente ricomposti con la politica delle autonomie dal Trentino alla Sicilia, è la prima volta che ciò avviene con tanta determinazione e in un quadro politico e istituzionale così debole e lacerato. Per la prima volta, si avverte la mancanza di un'idea, di un progetto, di un'intenzione al vincolo unitario presso forze politiche rappresentative di un sentimento diffuso anche a livello popolare. È un fenomeno preoccupante e la buona politica dovrà fare il massimo per provare a riassorbirlo, delineando i contorni e l'impegno di un'Italia futura.

In questa difficoltà, riemergono antichi giudizi sommari e volgari pregiudizi sulla formazione dello Stato unitario, e bilanci superficiali e faziosi che tendono a svalutare il lungo percorso iniziato dopo il 1861. Per arginare tale tendenza sarebbe opportuno inserire nel dibattito sui 150 anni anche una riflessione sulla cosiddetta Prima Repubblica, che significa considerare gli ultimi 60 anni di storia nazionale, vale a dire oltre un terzo dell'intero cammino unitario dello Stato italiano. Un tema non secondario perché quel percorso coincide nella sua interezza con la democrazia politica modernamente intesa, quella che pratica il suffragio universale consentendo il voto a tutti i suoi cittadini, a prescindere dal censo, dal sesso e dall'istruzione. Eppure si tratta di un dibattito rimosso dal discorso pubblico nazionale; se si affronta è solo per esecrare quel passato, da un lato, per relativizzare la propria mediocrità di oggi, dall'altro, per dare nuovo fiato ai venti dell'antipolitica e del populismo che stanno già da tempo gonfiando le vele di quei fermenti anti-unitari di cui il leghismo (quello del nord e quello del sud, che si intravede all'orizzonte) sono solo l'epifenomeno, la loro sintesi romana e paradossalmente nazionale.

Sarebbe invece importante discutere dell'ultimo sessantennio repubblicano, evitando caricature disfattiste e senza alcuna ridicola nostalgia perché il passato non si ripropone mai uguale a se stesso; bisognerebbe però farlo con rispetto, con senso di prospettiva storica e con la capacità di formulare un giudizio, nonostante i ritardi, le contraddizioni, gli errori, complessivamente positivo. Perché il nocciolo è che l'Italia della Prima Repubblica, tra il 1946 e il 1993, e quella classe dirigente, democristiana, comunista, socialista, repubblicana, liberale, nonostante enormi difficoltà sociali ed economiche (si pensi all'industrializzazione e ai fenomeni migratori interni) e di carattere politico (si pensi allo stragismo neo-fascista e al terrorismo rosso), è riuscita non solo a conservare la democrazia, ma a consolidarla, garantendo oltre 50 anni di pace, di sviluppo e di progresso come non mai, forse, nella plurisecolare storia della penisola.

Basterebbe questa constatazione non solo a confermare i vantaggi dell'Unità nazionale, ma a ricordare la superiorità della democrazia rappresentativa rispetto a qualsiasi altra forma di regime politico. E ricordare che tutto ciò è stato garantito dai vituperati partiti di massa, che sono riusciti a colmare la tradizionale divisione fra cittadini e politica, fra istituzioni e società civile, che dopo la loro crisi si è ripresentata in forme, retoriche e modalità dalle antiche e fossilizzate radici.

È sufficiente leggere i libri di memorie dei protagonisti di quegli anni, dal democristiano Paolo Emilio Taviani al comunista Giorgio Napolitano, dall'europeista Altiero Spinelli al repubblicano Giovanni Spadolini per avere la chiara percezione che, nonostante le profonde diversità ideologiche e politiche, sono esistiti un cimento e una spinta ideale comuni, un progetto democratico, popolare e nazionale condiviso.

L'unità di una nazione è soprattutto nella sua intenzione. È importante valorizzare questa consapevolezza, a partire dalla carta costituzionale che celebra quell'Italia una e indivisibile che con la Repubblica ha trovato la libertà e la democrazia che sono a fondamento del vivere civile. Questa è la sfida che abbiamo davanti, "meno uno" e ben oltre.

miguel.gotor@unito.it

28 Marzo 2010
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