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Per le imprese fatti non parole

di Pietro Modiano

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28 novembre 2009

Qualcosa non va. Anche se c'è finalmente un po' di ripresa, se qualche dato congiunturale è incoraggiante, l'Italia rischia di essere fra i paesi più colpiti dalla crisi, prima con una recessione particolarmente profonda, e poi con una ripresa fra le meno forti.
I dati dell'Ocse sono chiari. Nel 2010, se anche avremo una crescita dell'1,5%, il nostro Pil sarà del 4,7% inferiore ai livelli pre-crisi, quelli del 2007. Nell'area euro, la distanza dal 2007, dopo un anno di ripresa, sarà del -2,4%; nell'area Ocse del -1%, nel G-7 la media sarà -1,5%; gli altri paesi: Germania -2,4, Francia -0,7, Spagna -3, Belgio -1,5, Olanda -1,7, Usa +0,3. Il Giappone, che soffre, sarà a -4,3, un po' meglio di noi. Se si allunga lo sguardo alle previsioni Ocse 2011, il quadro non cambia (noi -3,3 sul 2007, area euro -1, Germania -0,8).
Insomma, il Pil dell'Italia, dopo essere cresciuto molto meno degli altri quando tutto andava bene, con la crisi è calato di più e si riprende meno velocemente. Eppure l'Italia sarebbe dovuto essere uno dei paesi che, nella crisi, se la cavava meglio. Poco debito delle famiglie, banche solide, una bolla immobiliare non così pronunciata.
I dati dicono invece che qualcosa non sta funzionando, e di fondamentale. C'è da ragionare sulla malattia che ci ha colpito, che non è di oggi. Gli anni buoni, quelli della crescita mondiale senza inflazione, erano passati con un deficit di crescita del Pil italiano di un punto circa in media annua rispetto agli altri paesi industriali, e il differenziale di crescita si accumula. Una malattia non di oggi, in parte ancora da diagnosticare, da taluni addebitata alla parte sana dell'organismo, cioè alla nostra industria manifatturiera. Un'industria imputata di nanismo, cattiva specializzazione, assetti proprietari e produttività carenti, poca flessibilità del lavoro, ma che nella realtà si è rivelata sana e resistente (il valore aggiunto manifatturiero dell'Italia dal 2005 è cresciuto quasi 10 punti più di quello francese e poco meno di quello tedesco). La malattia sta altrove e bisogna che la parte sana dell'organismo non s'indebolisca.
È chiaro che l'attesa del ciclo mondiale non è una strategia. Ha una sua razionalità, perché se non c'è ripresa mondiale non ce n'è per l'Italia, e viceversa. Ma poteva essere una strategia solo nell'ipotesi, a priori non infondata ma rivelatasi fallace, che spontaneamente ce la saremmo cavata meglio di altri, e comunque non peggio di altri, come invece sta accadendo. Bisogna agire. Ci sono pochi soldi, e questo è vero. Ma a maggior ragione in questo contesto vanno spesi tutti e bene.
Parlando di sostegno alle imprese, è quindi necessario evitare che chi finora ha sostenuto la nostra crescita cada immeritevolmente sotto i colpi della crisi, e bisognerà accettare invece che la crisi faccia il suo corso dove non si può evitare, e dove il sostegno premierebbe chi ha la responsabilità delle nostre strutturali debolezze. Bisogna che chi è abituato a non competere, e appesantisce il paese, impari a vivere in un'economia meno protetta.
Bisogna nello stesso tempo che alla crisi sopravvivano tutte, nessuna esclusa, le imprese esportatrici che alla vigilia della crisi avevano buoni conti, buoni prodotti e buoni mercati: che nessuna di loro cada per mancanza di risorse finanziarie, e sia aiutata a resistere. È fondata l'ipotesi che alla ripresa i concorrenti saranno più o meno nelle condizioni di prima della crisi, e la partita si potrà riprendere con successo. Bene la cassa integrazione lunga. Ma male l'inattività sul credito. L'offerta delle banche va stimolata, ma per farlo vale solo una regola, che è quella di ridurre i loro rischi, e il costo relativo. Rischi non solo economici, fra parentesi: per esempio, l'attività dei prefetti sarebbe stata utile se avesse tolto alle banche chiamate a dar credito a imprese in difficoltà la presunzione di conoscenza dello stato di decozione. Ma i rischi da attenuare sono soprattutto economici: quelli che pesano sui profitti e sui ratios patrimoniali.
Qui abbiamo Basilea 2 che gioca contro, e lo farà soprattutto nel 2010, quando le imprese avranno – sperabilmente – da rifare i magazzini e da investire in capitale circolante e fisso, e le banche avranno sui loro computer i bilanci del 2009, e diranno molti no in automatismo.
E allora c'è da fare, oltre al resto (il trattamento fiscale sugli accantonamenti) anche una cosa semplice, e non molto costosa, e cioè dar vita a un sistema di garanzie pubbliche molto più abbondanti, meglio se canalizzate attraverso confidi potenziati e concentrati. Garanzie che non coprano l'intero rischio, pervertendo le scelte di mercato, ma lo attenuino in modo da evitare – cosa buona e giusta – i comportamenti pro-ciclici delle banche. La letteratura economica addita la pro-ciclicità delle banche come il peccato peggiore del mestiere di chi eroga credito, responsabile storicamente, in fase d'espansione, di molte bolle e di molte market failures. Ma è un peccato pericoloso, e evitabile, anche in recessione.
Servono appunto, le garanzie, a interpolare il ciclo, aiutano il mercato a funzionare in queste condizioni estreme, e hanno il vantaggio di non pesare sul bilancio pubblico se non per la quota escussa che, parlando di nuove linee di credito, potrebbe essere dell'ordine dell'1-2 per cento. Al 2% di perdita attesa, con quattro miliardi di oneri potenziali per lo stato, diluiti nel tempo e ritardati, si possono costruire fondi di garanzia per 20 miliardi, e accrescere così l'offerta di credito di un ulteriore multiplo di questo ammontare. Se la s'indirizza a settori e imprese pre-selezionati (manifattura, esportazioni, conti in ordine fino al 2008) se ne possono salvare molte, di imprese meritevoli oggi in ansia, e a basso prezzo. Preservando il potenziale di quella parte della nostra economia che ci ha consentito di evitare di cadere ancora più in basso nelle classifiche della crescita.

28 novembre 2009
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