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La prima bolla della finanza islamica

di Mario Margiocco

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28 novembre 2009

Per ora sono sicuri solo due fatti, nella storia degli ex soccorritori finanziari del Golfo Persico, ora da soccorrere. L'emirato del Dubai ha chiesto una ristrutturazione del debito; non è quindi un default, ma non si sa quanto vogliono ristrutturare, come, e nemmeno si sa con esattezza l'ammontare del debito. E, altro fatto certo, per qualche anno le agenzie di viaggio d'Europa e d'America porteranno assai meno turisti a vedere le meraviglie architettoniche costruite sulla sabbia del deserto del Golfo Persico e che entrano ora "in sonno". Per il resto, tutto è incerto, anche la solidarietà della finanza araba. Non siamo di fronte a una crisi "subprime" del Golfo Persico, nel senso di un fenomeno di quella portata. Ma la confusione è notevole. E il comportamento delle autorità del Dubai, oltre 2 milioni di persone su poco più di 4mila chilometri quadrati e una selva impressionante di grattacieli arditi per altezza e design, ha contribuito a creare nervosismo.
Prima c'è stato il licenziamento nei giorni scorsi di una serie di personaggi influenti nella struttura del potere economico, primo fra tutti il numero uno del Dubai international financial center, la struttura finanziaria offshore che doveva fare di Dubai la capitale finanziaria più importante a est di Francoforte. Poi l'annuncio mercoledì della richiesta di moratoria per Dubai World, che è il principale braccio economico operativo e ha un debito totale di 59 miliardi di dollari, mentre di 80 è quello pubblico complessivo. Senza specificare l'ammontare su cui si chiede la moratoria (i debiti in scadenza a breve sono pari a circa 6 miliardi). A complicare il quadro, il fatto che l'annuncio è stato dato alla vigilia di quattro giorni di festività. E, cosa che ha aggiunto nervosismo, lo stesso giorno in cui la Bundesbank anticipava che le maggiori banche tedesche dovranno cancellare entro il 2010 crediti inesigibili per 90 miliardi di euro dopo i 130 già cancellati nel 2007-2008. «Si possono fare tre ipotesi – dicono Saud Masud e Reinhard Cluse di Ubs investment research - o il sostegno dato da Abu Dhabi è meno solido del previsto o i problemi nel settore corporate locale sono ancora più gravi o il debito complessivo dell'emirato è più alto del 100% del Pil».
Continua u pagina 17
Dubai ha poco petrolio, quasi nulla ormai; è molto indebitato; non ha risparmio fiscale, lo stato cioè non ha riserve; e ha vissuto uno dei più scatenati boom edilizi che la storia ricordi e che hanno trasformato il deserto. A febbraio l'emirato veniva rafforzato da un prestito pubblico di 20 miliardi di dollari sottoscritto per metà dalla banca centrale degli Emirati, cioè di fatto da Abu Dhabi, il paese leader fra i sette che compongono dal 1971 la federazione a sud-est della penisola arabica.
La richiesta di moratoria sembra indicare che Abu Dhabi ora frena, e certamente indica che non bastano i capitali raccolti o prenotati da Dubai nelle ultime settimane con una serie di operazioni di finanza islamica e tradizionale per un totale di circa dieci miliardi. La richiesta ai creditori di aspettare almeno fino a maggio, fatta il 25 novembre poche ore dopo l'annuncio dell'incasso di una tranche da 5 miliardi di dollari (parte del pacchetto concordato con la banca centrale degli Emirati e quindi Abu Dhabi), ha innervosito i mercati globali. La ristrutturazione riguarda anche un debito da 3,5 miliardi di dollari di una società del gruppo Dubai World, debito che è il più grosso "sukuk" - prestito obbligazionario di osservanza islamica - mai apparso sui mercati. Quando fu lanciato, a fine 2006, era una bandiera del mondo a est di Suez.
Il fondo sovrano di Abu Dhabi (Adia), ha un capitale di circa 500 miliardi e sarebbe quindi in grado di sostenere senza difficoltà il paese fratello. Probabilmente però ha deciso di farlo solo se Dubai mette in ordine i conti, elimina le società traballanti, passa attraverso un lavacro di fallimenti, e pone un limite alle proprie ambizioni.

28 novembre 2009
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