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OLTRE LA CRISI - RICETTE GLOBALI / Sindrome di Tokyo per la Ue

di Hans Werner Sinn

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28 ottobre 2009

Il modello economico americano è crollato. In anni recenti, gli Stati Uniti si sono fatti prestare dal resto del mondo gigantesche somme di denaro. Soltanto nel 2008, l'importazione netta di capitali ha superato gli 800 miliardi di dollari, per lo più attraverso la vendita di titoli garantiti da prestiti ipotecari e di obbligazioni garantite da crediti, cioè crediti in cambio di crediti da riscuotere dai proprietari americani di case (dalle case stesse, in realtà, essendo quei proprietari tutelati dalla natura dei finanziamenti a garanzia limitata che avevano ricevuto).
Per questi titoli, i mercati sono scomparsi. Mentre nel 2006 ne erano stati emessi per 1,9 miliardi di dollari, il volume del 2009 si aggirerà probabilmente sui 50 miliardi, stando alle ultime stime del Fondo monetario internazionale, un calo del 97 per cento. Nessuna cifra rivela meglio di questa la vera catastrofe del sistema finanziario americano.

Quando si è interrotto il flusso di fondi mondiali che scorreva verso gli Stati Uniti, i prezzi immobiliari sono scesi del 30%, le costruzioni di oltre il 70%, e la recessione è diventata inevitabile. I lavoratori edili licenziati si sono stretti la cintura, e anche i proprietari di casa, alcuni perché si sentivano più poveri, altri perché le banche, sotto shock per il collasso dei derivati, hanno smesso di concedere prestiti ipotecari per finanziare i consumi.
Negli anni precedenti alla crisi, il flusso dei nuovi mutui era superiore del 60% al valore degli immobili residenziali in costruzione. Ora è inferiore del 150 per cento.

I primi undici mesi della recessione che è seguita sono stati altrettanto severi dei primi undici mesi della Grande depressione iniziata nel 1929. Ma giganteschi rimedi keynesiani, per oltre 1,4 miliardi di dollari in tutto il mondo, e salvataggi di banche per circa 8 miliardi, hanno fatto effetto. Tra la primavera e l'inizio dell'estate di quest'anno hanno fermato il declino e portato la recessione a una sosta che si spera non sia soltanto temporanea.

La capacità produttiva sottoutilizzata resta tuttavia enorme. Ci vorranno anni perché l'economia mondiale ritrovi l'andamento di prima, in particolare perché le previsioni di crescita non sono molto promettenti e la disoccupazione continua ad aumentare negli Stati Uniti e in Europa.
La medicina efficace, che per adesso continua a dover essere somministrata, è il debito pubblico. I governi prelevano l'eccedenza del risparmio privato e la iniettano nell'economia globale, stabilizzando così la domanda aggregata e il sistema finanziario. Ne consegue che il deficit pubblico svetta dappertutto. Nel 2009 in quasi tutti i paesi dell'Unione Europea sfonderà il tetto stabilito dal Patto per la stabilità e la crescita, il 3% del Prodotto interno lordo, e in alcuni casi arriverà al 10% o lo supererà, per esempio in Spagna (10%), nel Regno Unito (14%) e in Irlanda (16%).

Gli Stati Uniti, epicentro della crisi, sono in gravi difficoltà. A fine anno, il rapporto tra debito e Pil salirà dal 73% nel 2008 all'87%, e siccome è previsto per l'anno prossimo un deficit pari all'11% del Pil, è sicuro che nel corso del 2011 tale rapporto supererà il 100 per cento. Il paese simbolo della stabilità e della potenza capitalista è oggi paurosamente simile ai paesi in via di sviluppo che risentirono della crisi del debito mondiale nei primi anni Ottanta.
Anche se un paese può diventare insolvente, prima che accada dispone di molti modi per ridurre il proprio debito nazionale. Gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di imporre una tassa di successione sui depositi esteri di titoli americani, e molti pensano che cercheranno di giocare la "carta italiana": un'inflazione del debito pubblico e una svalutazione della moneta, per conservare la propria competitività internazionale.

Certo, è difficile far crescere l'inflazione quando i tassi d'interesse a breve termine sono quasi a zero, e non possono essere ulteriormente ridotti, pena un'incetta massiccia di denaro liquido. Ma in tutto il mondo è lo scenario previsto e temuto dagli investitori, un timore che fa avverare la previsione perché contribuisce al calo del dollaro, ad aumentare la domanda di esportazioni e il prezzo delle importazioni statunitensi.
Paradossalmente, i tassi di cambio flessibili aiutano proprio la nazione che ha causato la crisi, nei meccanismi economici non c'è giustizia.

In Europa è vero il contrario. La Banca centrale europea ha esaurito le munizioni e non potrebbe creare inflazione neppure se lo volesse (non può farlo: secondo il trattato di Maastricht, l'unico scopo della Bce è quello di mantenere la stabilità dei prezzi).
Ma il rafforzamento dell'euro riduce sia i prezzi delle importazioni che la domanda di esportazioni e questo, di per sé, fa calare i prezzi. È quindi molto probabile che l'Europa non giocherà la carta italiana e dovrà affrontare difficoltà notevoli per uscire dalla stagnazione attuale. Il rischio è che l'Europa si avvii sulla strada giapponese, invece che su quella italiana.
Dopo la crisi bancaria del 1987-1989, il Giappone ha attraversato due decenni di stagnazione e di deflazione, mentre il debito pubblico saliva alle stelle. Impedire che lo scenario si ripeta è il principale compito dei decisori europei negli anni a venire.

Hans-Werner Sinn è presidente
dell'Institute for economic research (Ifo)
(Traduzione di Sylvie Coyaud)

28 ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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