Ma la Germania è davvero intenzionata a restare in questa Unione Europea? La domanda, che poteva apparire provocatoria, l'aveva posta nel giugno 2008 l'accademico inglese Timothy Garton Ash dopo il «no» irlandese al Trattato di Lisbona, che sarebbe poi entrato in vigore il primo dicembre 2009. Il professore era rimasto colpito dalla reazione dei ministri degli Esteri e degli Interni tedeschi, che con parole quasi sprezzanti avevano balenato la possibilità di procedere anche senza l'Irlanda, guidando in pratica la pattuglia d'élite dei paesi europei.
Passati due anni ad alta tensione (a metà dei quali è caduta la storica sentenza della Corte costituzionale tedesca che ha aperto la strada alla ratifica del Trattato di Lisbona da parte di Berlino) e nel pieno della violenta crisi della Grecia che allunga le sue ombre fino a minacciare la stessa moneta unica, la domanda in qualche modo si ripropone e si allarga al modello di costruzione europea. Tra risultati (pochi), molte promesse e rumorose velleità.
Le incertezze tedesche sul piano di salvataggio della Grecia, per la quale Angela Merkel ha indossato vesti di rigore teutonico intonate a sondaggi politici che vedono la maggioranza dei tedeschi contrari a "spendere" per Atene in assenza di garanzie precise, vengono spiegate in chiave di politica interna, avvicinandosi le elezioni nel land Nord- Reno Vestfalia.
Il pressing sul governo tedesco è fortissimo, e presenta ottime motivazioni, visto che un crash greco potrebbe avere conseguenze devastanti. Ma sullo sfondo si confronta con un osso ancora più duro, cioè i limiti della stessa costruzione europea in rapporto alla sovranità degli stati nazionali.
Proprio la sentenza della Corte di Karlsruhe, fissando nel cuore dell'Europa diversi paletti per il comportamento del governo tedesco nei confronti dell'Unione Europea e dei suoi meccanismi decisionali, ha dato in buona sostanza fiato a una cittadinanza delusa e preoccupata. Infatti, ai tedeschi deve essere comunque garantito il principio del limite dell'integrazione europa e il rispetto, per le "decisioni essenziali" che li riguardano, delle deliberazioni del Parlamento democraticamente eletto, quale è quello nazionale.
Se questo è lo sfondo, si annuncia nei prossimi giorni un confronto parlamentare serrato, e senza esclusioni di colpi, sulla legge che dovrà consentire alla Germania di correre in aiuto della Grecia.
Euroscetticismo in salsa giuridica di alto profilo? Può darsi, ma è un fatto che né l'Europa in quanto "sistema", né lo stesso governo tedesco siano riusciti a invertire una tendenza al ripiegamento complessivo. Già nel 2007, allo sbocciare della crisi dei sub-prime Usa, i capi dei governi di Francia e Germania, Sarkozy e Merkel, si erano mossi contro le agenzie di rating (Moody's, Standard&Poor's e Fitch) accusandole in pratica di aver concorso con le banche alla sciagurata cartolarizzazione dei mutui. Ancora, nel giugno del 2008, la Merkel aveva ripreso il tema, allargandolo: basta al "dominio" di Londra sulle borse, le agenzie di rating non sono indipendenti, sono un cartello e hanno fallito, occorre una nuova agenzia "targata Ue". Il terreno era di quelli scivolosi (le agenzie non sono pubbliche e non svolgono funzioni pubbliche) ma è evidente il fatto singolare, per non dire anomalo, per il quale un anello-chiave del sistema finanziario globlale è un influente oligopolio privato. Un margine per muoversi, insomma, c'era: ma dopo le parole grosse non sono seguite né analisi più sottili e pertinenti né decisioni europee, e la storia vuole che sia stata una delle tre terribili "sorelle" del rating, l'altro ieri, ad affondare ulteriormente la Grecia e ieri a declassare la Spagna.
Un'altra luce, questa volta di vera speranza, s'era accesa nell'ottobre 2008, a Grande Crisi ormai deflagrata e conclamata. A Parigi, di domenica, i governi della Ue con un vertice d'emergenza avevano messo sul piatto dei mercati un piano tre volte superiore a quello di 700 miliardi messo in pista in America dall'allora amministrazione Bush. Parve l'inizio di una ripresa in grande stile, anche politica. Sembrò il passo giusto per un ritrovato protagonismo europeo.
Nulla di più fugace. I mesi successivi hanno visto fiorire innumerevoli proposte, ma niente di veramente concreto ed esaustivo è uscito dai cantieri con l'etichetta "made in Europe". Fino allo scoppio del caso greco, che ha fatto segnare il punto più alto dell'approssimazione e di deficit gestionale nell'affrontare una crisi drammatica e dagli esisti non imprevedibili per la stessa costruzione europea. Quanto tempo è stato speso per progettare un impossibile intervento di un nascituro Fondo monetario europeo? Quante altre parole grosse e impegnative sono volate via quasi ad evidenziare la mancanza di misure concrete ed immediate, facendo così alzare il livello della sfida della speculazione?
Bisogna agire in fretta, ha detto il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet. Il tempo è tutto, a questo punto della partita, e ogni altra parola, in assenza di fatti, appare superflua.

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