Siamo ancora un popolo di "formiche", di gente saggia e previdente. Così ci dicono i dati dell'annuale rapporto del Censis e quelli dell'indagine a campione condotta dalla Bnl e dal Centro Einaudi.
È vero che è finita da un pezzo l'epoca, come succedeva fra gli anni 80 e 90, in cui gli italiani arrivavano persino a mettere da parte una somma pressoché analoga a quella complessiva che risparmiavano, tutti insieme, inglesi, francesi e tedeschi. Al punto che oltre il 93% delle famiglie risultava (nel 1984) in possesso di un conto corrente in banca o di un libretto postale. Ma ancor oggi, che non è più tempo di vacche grasse, i nostri connazionali tendono pur sempre, appena possono, a risparmiare qualcosa: tant'è che, stando al sondaggio compiuto dalla Bnl e dal Centro Einaudi, il numero delle famiglie che sono riuscite ad accantonare qualche gruzzolo è risalito al 47% dal 31% dell'anno scorso, quando si era al culmine della crisi economica. A sua volta, il Censis ha calcolato che la propensione al risparmio degli italiani è cresciuta nello stesso periodo dal 14,8 al 15,2 per cento.
Ogni volta che si fa la conta di quanti destinano parte dei loro proventi al risparmio, la categoria sociale cui si fa di norma riferimento è quella del ceto medio. Ma oggi la cosiddetta classe media è un aggregato talmente vasto ed eterogeneo che non corrisponde più alle caratteristiche che sino a qualche decennio fa ne designavano l'identikit in termini sia di redditi e di occupazioni, sia di orientamenti e stili di vita. Al punto che ci si chiede se esista tuttora un ceto medio che si possa definire a rigore come tale. E ciò per via dell'estrema varietà e frammentazione delle sue componenti, nonché per la crescente fluidità di ruoli e posizioni di ognuna di esse nella scala sociale.
All'interno di questo complesso e frastagliato universo, convivono infatti tre diversi strati (da quelli in cima più benestanti, a quelli nel mezzo, a quelli del gradino più basso) cui corrispondono altrettante differenziazioni, vecchie o nuove, stabili o contingenti, che agiscono trasversalmente a seconda delle classi d'età e dei gruppi familiari, dei livelli d'istruzione e del genere d'attività, delle aree di residenza e della cerchia delle relazioni sociali.
Tuttavia è dato riscontrare un fenomeno che, al di là di specifici tratti distintivi, ha finito negli ultimi tempi per accomunare sia pur in diversa misura le singole anime di quello che passa per il ceto medio. Ed è una mobilità sociale più verso il basso che verso l'alto, a differenza di quanto avvenuto in passato. Non è con questo che si debba parlare di una sorta di proletarizzazione strisciante. Ma certamente si è in presenza di un indebolimento di gran parte del ceto medio.
Il fatto che negli ultimi tempi i prezzi siano diminuiti o rimasti pressoché stabili ha avvantaggiato, almeno sino a un certo punto, i pubblici dipendenti e quanti possono contare su un reddito fisso. Ma i colletti bianchi sono oggi una quota decrescente del ceto medio. Per tutti gli altri (artigiani, esercenti, professionisti, piccoli e piccolissimi imprenditori) che costituiscono il nerbo della classe media, le cose sono andate invece diversamente.
Tuttavia, anche per i colletti bianchi, tanto più se sono in prossimità della pensione o hanno figli a carico, il presente o l'immediato futuro non si presenta affatto tinto di rosa. E ciò spiega come si sia manifestata, in complesso, la tendenza negli ultimi dodici mesi, per pessimismo o per insicurezza, più a risparmiare prudentemente che a consumare. È evidente pertanto l'esigenza di una politica fiscale e redistributiva efficace e calibrata per le famiglie, i lavoratori autonomi e le piccole imprese, se vogliamo evitare che lo zoccolo duro del ceto medio, che è la sua parte più consistente ma anche quella più vulnerabile, finisca per scivolare verso la linea d'ombra della "povertà relativa". Con tutte le conseguenze che, in tal caso, si riverbererebbero sul sistema economico e sugli equilibri sociali.