Gli scrittori, diceva Alberto Arbasino, imparano dagli altri scrittori seguendo lo schema della mossa del cavallo degli scacchi: l'imitazione e il magistero passano da zio a nipote con un movimento in avanti e uno a destra: percorsi tortuosi e imprevedibili che attraversano i paesi e le generazioni accompagnati da uscite editoriali e traduzioni, smarrimenti del gusto e rivalutazioni. Io ho cercato di imparare da Saul Bellow. Ho cercato di imparare da Martin Amis. Ho cercato di imparare da Flannery O'Connor. Non so ancora se ho imparato bene, se ho imparato tutto. Ma di una cosa son sicuro, J.D. Salinger non è un grande prosatore come Saul Bellow, non racconta con elettrico entusiasmo la vita contemporanea come Martin Amis in frasi indimenticabili. Non ha tensioni metafisiche insopportabili e potenti come Flannery O'Connor. La grandezza di Salinger, per me, sta nel suo essere un narratore, prima che uno scrittore: un intagliatore di personaggi indimenticabili, come Holden Caulfield, ça va sans dire, e l'intera famiglia Glass. La letteratura è anche la Religione del Personaggio. Ma c'è un'altra cosa che ho imparato da Salinger, ed è cruciale. Nella tetralogia che racconta la storia della famiglia Glass, l'autore si muove con libertà e invenzione lungo la cronologia delle trame sconnesse e delle debolezze psichiche dei vari membri della famiglia. I personaggi vengono introdotti in un racconto e poi ripresi in altri tre libri. Questa mobilità è particolarmente esemplare per me. La narrazione si apre in un libro e si riprende in un altro. È fatta di fessure che si allargano e diventano mondi. Come nei serial televisivi tipo Mad Men, straordinarie epopee esistenziali degli americani moderni, la struttura narrativa permette deviazioni, ritorni e spin-off. Nelle serie Tv lo spin-off è un approfondimento di una vicenda laterale rispetto alla storia principale che si caratterizza come narrazione a sé stante. Forse la storia letteraria consegnerà un ruolo a J.D. Salinger molto diverso da quello che immaginano alcuni disinvolti imitatori italiani. Ma la posizione nel canone è affare da critici, non da scrittori, perché se la letteratura è, come diceva Margaret Atwood, un ininterrotto dialogo con i morti, si potrebbe concludere che la parabola dell'apprendimento funziona anche quando il "nipote" considera lo "zio" assai sopravvalutato e ciò conferma, ribaltandolo, l'antico adagio: da "non si butta via niente" a non si butta via tutto.