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Non sapremo più dov'è Kathmandu

di Sergio Luzzatto

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29 gennaio 2010

Attualmente discussa in parlamento, la cosiddetta riforma Gelmini prevede una riduzione del numero di ore settimanali di didattica nei licei e negli istituti tecnici e professionali. Se la riforma verrà approvata nella forma attuale, gli studenti della secondaria superiore dovranno trascorrere sui banchi meno ore. Di conseguenza, alcune materie si troveranno a essere penalizzate. Saranno giudicate meno indispensabili di altre alla formazione degli adulti di domani. In pratica, verranno insegnate di meno.

La materia che rischia di pagare il prezzo più alto è la geografia. La riforma Gelmini prevede infatti di ridurne l'insegnamento a un'ora alla settimana (contro le due attuali) nel biennio dei licei, e di cancellarla del tutto (o quasi del tutto) dai programmi degli istituti tecnici e professionali. Una prospettiva che non ha mancato di suscitare la levata di scudi dell'Associazione italiana degli insegnanti di geografia, il cui appello "in difesa" della geografia stessa ha raccolto su internet, in questi giorni, oltre 11mila firme di adesione.
Sarebbe sbagliato leggere tale appello, «A scuola senza geografia», come una mobilitazione puramente corporativa, o come l'ennesimo segnale d'immobilismo che si leva dal ventre molle del nostro sistema scolastico. In realtà, l'appello identifica un limite grave della riforma Gelmini. Se davvero, nei nuovi curricoli della scuola secondaria superiore, la geografia verrà trattata come una cenerentola, il governo si dimostrerà ben poco lucido riguardo alla gamma dei "saperi assolutamente irrinunciabili" (come recita l'appello) per affrontare le sfide del mondo contemporaneo.

Nell'età della globalizzazione, penalizzare l'insegnamento della geografia sarebbe assurdo. E avrebbe effetti tanto più disastrosi in quanto, nella pratica quotidiana del lavoro scolastico, le ore di geografia non si riducono affatto a un esercizio di vacuo nozionismo, reso oggi più che mai superato dall'uso del Gps o dalle meraviglie di Google Earth. Esattamente come la storia non si esaurisce nelle "date", così la geografia non si esaurisce nei "numeri": la superficie del Portogallo in chilometri quadrati o l'altezza del monte Bianco sul livello del mare. Nel concreto della didattica, le ore di geografia rappresentano spesso l'unica occasione in cui i professori discutono con gli alunni di faccende cruciali.
Se la geografia verrà ridimensionata nella scuola secondaria superiore, chi insegnerà ai nostri ragazzi la geopolitica del mondo contemporaneo? La posizione relativa dell'Italia e dell'Europa, le prospettive di crescita (o di egemonia) della Cina e dell'India, il ruolo dell'Onu e delle organizzazioni sovranazionali? Chi insegnerà le cause e le conseguenze dei movimenti di popolazione, lo svuotamento progressivo delle campagne, la crescita incontrollata delle megalopoli? E chi insegnerà loro qualcosa come un'educazione civica globale, la capacità di situare in uno spaziotempo planetario la questione dei diritti umani, o degli indici di sviluppo, o delle diseguaglianze fra Nord e Sud del mondo?

Per giunta, nella scuola italiana - dove manca un insegnamento serio di storia delle religioni - la geografia vale da introduzione, per quanto rapida e superficiale, alla specificità delle culture diverse dalla nostra. Le ore di geografia sono uno dei rari momenti in cui i ragazzi si misurano esplicitamente con quanto li circonda fuori dalla scuola, in quella società multietnica che è ormai anche l'Italia: sia questo una cosa importante o una cosa futile, un simbolo identitario o una specialità gastronomica, un velo islamico o un involtino primavera.
Altro che riforma. Colpire la geografia a scuola significa colpire la scuola, se non proprio affondarla.

29 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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