Google è oggi sotto attacco su una pluralità di fronti. Da una parte, c'è il processo "Vivi Down" a Milano, che verte attorno alla pretesa responsabilità del motore di ricerca, per quanto riguarda contenuti liberamente immessi dagli utenti su YouTube. Dall'altra, c'è una più ampia questione di concorrenza, che in varie sedi (per esempio in Italia con il ricorso all'Antitrust da parte degli editori italiani) mette al centro la posizione dominante di Google nella raccolta della pubblicità online.
Che cosa unisce contestazioni così diverse? Un filo rosso d'ipocrisia. È prassi comune elogiare il ruolo sociale di Google, la superiorità del suo algoritmo di ricerca, la facilità d'uso, la cornucopia di programmi e applicazioni concessi gratuitamente agli utenti, la sua vocazione "democratica" che emergerebbe anche dalla valorizzazione di fonti d'informazione fuori dal novero di quelle storicamente più accreditate.
Ma l'elogio di Google diventa contumelia sulle soglie del suo modello di business. Perché ciascuna delle caratteristiche che ne ha reso immensamente popolare l'offerta negli anni scorsi è finalizzata ad aumentarne la raccolta pubblicitaria, e dunque i profitti.
Google è costruito nel modo più decentrato, più bottom up, possibile. La forza del suo algoritmo di ricerca sta proprio nel "PageRank", ovvero nella raccolta d'informazioni, altrimenti disperse, sul gradimento che un certo contenuto si è conquistato online, da parte dei lettori. Google funziona, in un certo senso, come un mercato: mette assieme, centrifuga e rende conoscibili a tutti le preferenze espresse da ciascuno di noi.
Per osmosi, un modello simile è stato applicato alle sue sorelle. Chi (come i pm milanesi che seguono il caso) assume una responsabilità oggettiva per i contenuti "caricati" dagli utenti su YouTube sembra pensare che stiamo ancora parlando di un prodotto editoriale tradizionale. Con la sua redazione, il suo menabò, la sua prima pagina.
È come giudicare un mercato con i parametri che si userebbero per valutare un'impresa. Un mercato non ha un amministratore delegato o un direttore generale: non c'è nessuno che prenda, per esso nella sua totalità, decisioni coerenti. È il risultato di milioni di scelte, autonome, diverse, talora conflittuali.
Così questi prodotti editoriali di nuova razza, in cui l'ordine che trovano i contenuti non è predeterminato, non è pensato, ma riflette i milioni di "voti" degli utenti, e come essi cambiano, secondo dopo secondo, un'offerta che si attaglia plasticamente e immediatamente alla domanda.
La questione non è, allora, tanto quella della "censura". È piuttosto che in un ecosistema di questo genere il confine fra controllo editoriale e censura è del tutto impalpabile. Implica, comunque, l'appiattimento sulla silhouette di un prodotto editoriale tradizionale – che è in tutta evidenza ciò che internet non è.
Parimenti, se si parla di concorrenza è difficile comprendere dove risiedano le colpe di Google, se non nel puro e semplice fatto di essere un'impresa orientata al profitto. Il continuo flusso d'innovazioni provenienti da Mountain View è stato sostanziato proprio dalla visione, squisitamente commerciale, di raggiungere una massa critica di utenti tale da rendere la raccolta pubblicitaria profittevole.
Se una softwarehouse può essere paragonata a un'impresa cinematografica, Google è una sorta di gigantesco canale televisivo commerciale, che ha esasperato uno dei caratteri più genuini della tv di cassetta: la sostituzione di un criterio "pedagogico" nella selezione dei contenuti, con la necessità di assecondare le preferenze del pubblico, per massimizzare la resa pubblicitaria. Google elimina anche i residui filtri in questa direzione. È così che procede una sorta di "disintermediazione delle scelte" che è al cuore del successo dell'impresa di Brin e Page, ma più in generale del world wide web.
Certamente, le innovazioni di Google le hanno valso una posizione ad oggi largamente dominante, in un settore che ha quasi inventato essa stessa: la pubblicità online. L'infrastruttura-Google non è una "rete" risultato di investimenti pubblici, né frutto di un monopolio legale.
Già in passato la passione per una concorrenza more geometrico ci ha fatto male interpretare lo sviluppo delle tecnologie. Sono stati capitali privati, non l'intervento del regolatore, a darci Google. Proprio per questo, è più probabile che saranno altri capitali privati, non nuovi interventi, a ridimensionarne le quote di mercato.
Alberto Mingardi è direttore generale dell'Istituto Bruno Leoni(www.brunoleoni.it)