Tutti vogliono tagliare le tasse, ma nessuno vuole perdere il controllo delle finanze pubbliche. Come risolvere il dilemma? Ci sono quattro modi per farlo.
Il primo è affidarsi alla famosa curva di Laffer, secondo cui tagliare le aliquote si paga da solo, perché genera un aumento del Pil e quindi del gettito fiscale, pur ad aliquote più basse. Ad essa si affidò Reagan nel 1979 per vendere i suoi tagli alle tasse (in realtà era solo una foglia di fico accademica, perché i tagli fiscali Reagan li avrebbe proposti comunque). Reagan trionfò per altri motivi: non molti si lasciarono impressionare dalla curva di Laffer. Anche il programma di Berlusconi del 1994 tentò di vendere la curva, incontrando lo stesso scetticismo. Pochi oggi sostengono apertamente questa teoria, ma lo slogan diffuso «la priorità ora è dare una scossa all'economia, poi si vedrà» vi si avvicina pericolosamente. Così come vi si avvicina l'idea che la semplificazione dell'imposta sul reddito, che pure va fatta, sia attuabile a costo zero.
Il secondo modo per tenere sotto controllo la finanza pubblica è tagliare le tasse "peggiori" e sostituirle con tasse "migliori", a parità di gettito.
M a tutte le tasse sono distorsive, tutte colpiscono qualche base imponibile che sarebbe meglio non colpire, se solo se ne potesse fare a meno. Oggi l'Irap è impopolare perché colpisce chi assume o non licenzia; ma altre imposte incidono sul consumo, e non andranno bene perché "per uscire dalla recessione bisogna rilanciare i consumi"; altre ancora incidono sul rendimento del capitale, e non andranno bene perché "per uscire dalla recessione bisogna incoraggiare la propensione al rischio". Questo non significa necessariamente che l'Irap sia una buona tassa: ma non aspettiamoci grandi effetti da una semplice sostituzione fra imposte.
Il terzo approccio consiste nel tagliare le tasse oggi e prendere un impegno solenne a tagliare la spesa in futuro. Questo è un approccio pericoloso, perché quando il futuro arriva, si troverà sempre un motivo per posticipare le decisioni difficili di un altro anno, e così via. Questo è il pericolo insito nei bilanci multiannuali: successe esattamente così con l'amministrazione Clinton agli inizi degli anni 90 (poi il disavanzo fu ridotto comunque grazie alla lunga espansione di fine secolo); e questa dinamica si osserva molto chiaramente nei nostri Dpef, che invariabilmente prevedono una spesa pubblica molto più bassa, ma sempre in futuro.
Il quarto modo è tagliare le tasse e tagliare anche la spesa. Ovviamente parlare di tagli alla spesa è un suicidio politico, e per molti anche economico nella congiuntura attuale. Ma, che ci piaccia o no, finché non si affronta l'argomento di una spesa pubblica vicina al 50% del Pil, qualsiasi taglio alle tasse che si riuscisse realisticamente ad attuare sarebbe sempre una goccia nel mare. Eppure in altri paesi, anche con spesa e debito pubblici inferiori ai nostri, parlare di spesa pubblica non è un tabù, neanche di questi tempi.
In piena campagna elettorale, i conservatori inglesi ne hanno parlato sempre più apertamente e sempre più dettagliatamente, costringendo anche i laburisti a fare altrettanto. Questo non significa che una volta al governo i conservatori faranno qualcosa, ma il dibattito c'è ed è vivo. Per qualche settimana anche durante la campagna elettorale tedesca si parlò apertamente di spesa pubblica, anche se poi le negoziazioni per il governo di coalizione hanno di fatto messo a tacere l'argomento (un altro esempio dell'"ora tagliamo le tasse, di spesa si riparlerà fra tre anni") .
Andando più indietro, molti di noi economisti hanno spesso citato il caso di paesi come l'Irlanda e la Danimarca, che negli anni 80, nel mezzo di una recessione molto peggiore di quella attuale, fecero l'impensabile: tagliarono drasticamente la spesa pubblica ed entrarono in un boom spettacolare. Forse sbagliammo, forse il boom non era dovuto al taglio della spesa pubblica: può darsi, ma è quantomeno curioso che, al momento buono, di quel dibattito non sia rimasto niente.
Detto tutto questo, bisogna essere realisti: di tagli alla spesa seri in Italia non si parlerà per molto tempo. Ma allora parlare di tagli alle tasse è ancora più pericoloso. Partire con il nostro debito pubblico e la nostra spesa non è irrilevante: può darsi benissimo che, per quanto desiderabile in altre condizioni, ora non possiamo permetterci un taglio alle tasse; può darsi benissimo che l'approccio prudenziale di Tremonti, lungi dall'essere dovuto a "mancanza di visione" o "mancanza di coraggio", sia fondamentalmente corretto. Lo sapremo (forse) solo fra parecchi anni, ma non lo escluderei a priori. E diciamo la verità: se Tremonti avesse accettato un aumento significativo del disavanzo, sarebbe stato accusato di mettere a repentaglio la credibilità fiscale (o ciò che in Italia passa per tale) conquistata a così duro prezzo.
C'è in tutto questo un'ovvia lezione per il futuro: chiaramente fu un errore, egualmente condiviso da molti governi, non approfittare degli anni buoni per metterci in condizione di usare le politiche di bilancio in chiave anticiclica alla prima recessione. Ma il passato è passato. Oggi la vera sfida per Tremonti è probabilmente all'interno della sua coalizione: lì, lo slogan "rigore con sviluppo" è spesso soltanto il cavallo di Troia per proposte di dubbia utilità, dalla Banca del Sud al Ponte sullo Stretto, fino al veto assoluto all'aumento dell'età pensionabile. Invece dei tagli alle tasse, una soluzione ancora peggiore: gli aumenti di spesa. E su questo, il ministro dell'Economia, forse anche perché vincolato da delicati equilibri interni, non ha sempre preso una posizione senza ambiguità.