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La parabola dei talenti perduti dai giovani

di Alberto Orioli

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29 ottobre 2009

Talento e futuro sono i due punti che uniscono la rotta della giovinezza. Il primo garantisce ciò che siamo, misura il valore delle nostre conoscenze o delle nostre abilità; il secondo è l'ansia di trasformare l'energia del presente in una prospettiva di vita, nel sogno realizzato.

L'Italia non è un paese per giovani. Non certifica i talenti, non valorizza il merito e non investe sulle nuove generazioni. Spesso le narcotizza con un curriculum formativo scadente e poco esportabile e le obbliga a un'overdose di flessibilità, correttivo ineluttabile di un modello di lavoro troppo oneroso per un welfare diventato, via via, un lusso europeo. A chi è giovane tocca una impossibile fase di iniziazione al lavoro (quasi uno su quattro è ora disoccupato del tutto) e un assai incerto futuro previdenziale: non era questo il destino dei loro padri quando avevano la loro età. E questo vale oggi sia per un lavoratore dipendente sia per un professionista.

Insomma, se – per dirla alla Bob Dylan – «essere giovani vuol dire tenere aperto l'oblò della speranza anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro», la barca-Italia fa di tutto per mettere alla prova la determinazione e la voglia di lottare dei suoi ragazzi. I giovani chiedono, se non proprio stabilità, almeno tutele migliori per gestire le fasi di passaggio da un posto all'altro in questa vita normalmente trapuntata di occasioni di impiego che, alla fine, fanno un complicato rosario lavorativo. Vanno in questa direzione le proposte Confindustria che verranno presentate il 17 novembre a Vicenza: abolizione del valore legale del titolo di studio, migliore diffusione dei prestiti d'onore, rilancio della formazione tecnica, spesso trascurato segreto di molte delle produzioni made in Italy. Ridare dignità all'università è forse l'unico modo per restituire il senso del futuro alle generazioni di oggi. È questo anche lo scopo della riforma Gelmini varata ieri dal consiglio dei ministri: i fondi andranno solo agli atenei virtuosi, saranno aboliti i corsi fittizi, la valutazione dei docenti sarà a cura degli allievi, aumenteranno le borse di studio per gli studenti più meritevoli. Si farà più ricerca e ciò significa qualità. Il tutto diventa poi equità sociale: un paese con buone università sceglie al meglio la propria classe dirigente. Senza scorciatoie, senza camarille.

29 ottobre 2009
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