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Quel matrimonio non consumato di Borsa italiana

di Fabio Tamburini

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3 aprile 2010


L'addio di Massimo Capuano, amministratore delegato di Borsa italiana da una decina d'anni, è anche l'occasione per un bilancio. L'accordo con il London stock exchange, la Borsa londinese, è stato annunciato nel 2007 con grandi squilli di tromba. Un'alleanza alla pari, venne detto, sottolineando che si trattava di un matrimonio e non della vendita della Borsa italiana agli inglesi. In effetti era difficile da credere perché, al di là dei valori economici, la sproporzione delle forze in campo risultava evidente. Ma l'illusione faceva comodo un po' a tutti. Alla Borsa londinese che, reduce dall'avere respinto l'attacco del Nasdaq americano, aveva bisogno di crescere per anticipare altri tentativi di scalata ed era interessata ad evitare eventuali alzate di scudi da parte italiana. Allo stesso Capuano, che ha coltivato il sogno della nomina a numero uno della super-Borsa nascente e incassato ricchi bonus. E agli azionisti della Borsa italiana Spa che, dopo anni in cui avevano incassato dividendi elevati, assicuravano il loro futuro di azionisti o venditori di quote scegliendo un socio dalle spalle forti.
C'è stato poi un momento, durato lo spazio di poche settimane, in cui l'illusione avrebbe potuto trasformarsi in un vero colpo di scena. Le banche italiane avevano in portafoglio quasi il 30% della nuova super-Borsa, mentre l'azionariato inglese era molto frazionato. In più, il Nasdaq aveva messo sul mercato la partecipazione nel London stock exchange acquistata durante il tentativo di scalata, una quota intorno al 30% diluita a poco più del 20 per cento. Ecco perché sarebbe bastato rilevarne una parte e la cordata italiana avrebbe avuto il pallino in mano. Il progetto esisteva, messo nero su bianco dal fondo Clessidra e coinvolgendo le principali fondazioni, dalla Crt alla Cariplo fino a quella del Monte dei Paschi di Siena. Quanto accadde fu significativo. Ancora una volta, come spesso succede anche nelle patrie del libero mercato quando capitali esteri puntano alla conquista di pezzi importanti dell'economia, come è il London stock exchange per il Regno Unito, il sistema ha reagito facendo blocco. Così la cordata delle fondazioni italiane si è dissolta rapidamente.
In più, alcuni dei soci bancari italiani hanno poi liquidato, del tutto o in parte, le loro quote. Nell'autunno 2008 lo stesso Capuano, intervistato da Ferruccio de Bortoli (attualmente alla guida del Corriere della Sera), ha provveduto a rettificare il tiro. «Tecnicamente non è stato un merger - ha chiarito - gli azionisti di Londra hanno acquistato Borsa italiana, scambiando le azioni con quelle di un aumento di capitale riservato agli azionisti italiani».
Un aspetto che merita di essere segnalato è il fallimento della piattaforma di compravendita titoli Trade elect, introdotta a Londra nei mesi precedenti all'operazione con Borsa italiana e preferita in quanto è stata considerata la migliore. Ora Trade elect verrà sostituita, ma serviranno tempo e denaro. Per il resto possiamo consolarci perché la Borsa italiana è stata di fatto consegnata al London stock exchange, che è certamente molto meglio della Borsa del Burundi. Resta il fatto che più chiarezza nel dirlo subito sarebbe stata opportuna e gradita. Non solo. Ancora oggi le Borse, nonostante il successo di mercati alternativi come Chi-X, restano realtà ancorate ai paesi d'appartenenza. Ma Piazza Affari, ormai, è targata inglese. Ora la partita vera per una maggiore italianità, in assenza di sorprese, si gioca sul numero delle società quotate e sull'importanza degli intermediari.
fabio.tamburini@ilsole24ore.com

3 aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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