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La stretta con i tassi in agguato

di Marco Onado

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3 aprile 2010


Nonostante l'impegno eccezionale delle banche centrali e dei governi, l'emergenza in campo finanziario è tutt'altro che superata. In tutti i paesi, il credito a famiglie e imprese ha subito una netta decelerazione; in Italia, come dimostrano i dati diffusi ieri da Banca d'Italia e l'allarme lanciato dal presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, siamo addirittura arrivati a diminuzioni nette sull'arco del 2009, contro tassi di crescita intorno al 10% registrati fino al 2007. Il fenomeno è dovuto soprattutto a fattori di domanda (la produzione industriale, che è la componente fondamentale del fabbisogno finanziario, è diminuita del 20%) ma getta luci inquietanti sul futuro. Prima ancora di preoccuparsi degli effetti di Basilea 3, che comunque entrerà in vigore nel 2012 e la cui struttura definitiva dipende anche dalla consultazione in corso, occorre affrontare i problemi che si profilano per i prossimi due anni, che saranno cruciali per l'uscita dalla crisi.
Un tema centrale è quello del costo del credito, che si sta rivelando sempre più come il fattore che ha ridotto l'impatto della crisi finanziaria più grave della storia sui bilanci di famiglie e imprese. Gli interventi realizzati hanno drasticamente abbassato i tassi d'interesse e hanno reso sostenibili livelli di debito altrimenti impensabili: si pensi alle famiglie di Usa, Regno Unito e Spagna, in cui il debito in essere supera di gran lunga il 100% del reddito disponibile e sfiora nei paesi anglosassoni il 150%. I dati contenuti nel Financial risk outlook della Fsa (l'autorità britannica di vigilanza) mostrano che nel Regno Unito il costo medio del credito ipotecario è diminuito di oltre due punti dall'inizio della crisi, portandosi nettamente al di sotto del 4%. In valore assoluto, il maggior reddito disponibile per le famiglie è stimato in oltre mille miliardi di sterline. Per le imprese, gli oneri finanziari hanno ridotto la loro incidenza sul margine operativo lordo dal 25% al 15% circa.
Per l'area dell'euro, il Bollettino di marzo della Bce ci dice che il costo medio del debito esterno delle imprese è sceso in linea con la riduzione dei tassi della banca centrale di quasi due punti dall'inizio della crisi, portandosi in termini reali al 3,1%, il livello più basso da dieci anni. In una recente audizione parlamentare, il vicedirettore generale della Banca d'Italia, Giovanni Carosio, ha confermato che a dicembre il tasso medio sulle erogazioni di crediti diversi dai conti correnti è stato del 2,2%, rispetto al 4,5% di dodici mesi prima, anche in questo caso un record.
Fin qui, tutto bene. Ma questi dati mettono anche in evidenza come, in assenza di una ripresa significativa dell'attività produttiva e del reddito, qualsiasi aumento dei tassi d'interesse potrebbe avere effetti devastanti sulla delicata fase di uscita dalla crisi. In altre parole, famiglie e imprese non possono fare a meno del sostegno ricevuto sotto forma di tassi ancora più bassi del livello, tutt'altro che elevato rispetto alla media storica, che prevaleva fino al momento in cui è scoppiata la crisi.
Non solo. Il dato medio dimostra che la riduzione del costo del denaro è stata trasferita ai prenditori di credito, ma ovviamente non a tutti in ugual misura. La Bce riporta i risultati della consueta indagine sul credito alle piccole e medie imprese. Circa un terzo delle oltre 5mila imprese del campione hanno dichiarato di avere registrato alla fine del 2009 un inasprimento del costo del credito: assai più di quelle che hanno rilevato una diminuzione, che sono circa un quarto del totale. Nota la Bce che il fenomeno riguarda in particolare le imprese più piccole, come sono appunto tipicamente quelle italiane. Anche qui il fenomeno può essere giustificato dal deterioramento della rischiosità dei debitori e dunque da una reazione razionale e comprensibile delle banche, ma è un dato di fatto che il problema è reale e assume particolare rilievo per la categoria di aziende più diffusa in Italia.
Insomma, il credit crunch è stato finora meno grave di quanto temuto, almeno per la gran parte delle imprese, ma due incognite gravano su questa nota di ottimismo. Primo: fino a quando potremo contare su tassi d'interesse così bassi? I dati commentati portano a concludere che la cosiddetta exit strategy è più una nobile intenzione che un'opzione concreta per le banche centrali e non è un caso che la Fed, dopo aver dichiarato di cominciare a prendere in considerazione il ritorno alla normalità, si sia affrettata ad aggiungere che i tassi non aumenteranno ancora per qualche tempo. Secondo: finora la riduzione del credito è da imputare soprattutto a fattori di domanda, ma quanto più la ripresa tarderà, tanto più si ridurrà la disponibilità e soprattutto la capacità delle banche di concedere credito. Le banche italiane stanno meglio di altre in termini di risorse patrimoniali (nei primi nove mesi del 2009 i cinque maggiori gruppi hanno aumentato il Core tier 1 dal 5,8% al 7,3%), ma poiché per l'intero sistema i prestiti sono circa sei volte il patrimonio totale, un peggioramento della qualità del credito dovuto ad uno scenario macroeconomico peggiore di quello (non esaltante) che si prospetta potrebbe rapidamente intaccare l'irrobustimento patrimoniale conseguito. Il problema, purtroppo, è assai più urgente di Basilea 3 e riguarda la capacità di tutti i paesi – ma soprattutto di quelli come l'Italia che hanno registrato in passato tassi di crescita inferiori alla media – di avviare un robusto processo di sviluppo. Una volta tanto, cercare il colpevole nella finanza e nelle regole di Basilea assomiglia ai gialli in cui l'assassino è il maggiordomo: troppo facile.

3 aprile 2010
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