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La legge rinvii ai contratti la scelta di tutele equilibrate

di Arturo Maresca

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3 aprile 2010


E se la richiesta del presidente della Repubblica alle Camere di una nuova deliberazione sul collegato lavoro fosse il coronamento ideale dell'iter legislativo di questa riforma ?
La domanda appare pertinente, infatti il presidente non formula rilievi sulla costituzionalità del collegato di cui apprezza «gli intenti riformatori», aggiungendo però che ciò deve realizzarsi «nel quadro di precise garanzie e di un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale». Garanzie ed equilibri necessari per l'«indubbia delicatezza sul piano sociale» di temi come quello dell'arbitrato applicato alla risoluzione delle controversie di lavoro.
L'alta lezione del presidente – che merita di essere inserita nei libri di testo di diritto del lavoro – costituisce un contributo di grande utilità proprio perché accompagna un passaggio importante nei tentativi di riforma del diritto del lavoro, questa volta riguardanti l'utilizzo dell'arbitrato.
Importanza che, sul piano mediatico, viene collegata prevalentemente alle conseguenze che le innovazioni in materia di arbitrato possono comportare per una delle norme-simbolo del diritto del lavoro: l'art. 18 dello Statuto.
Probabilmente l'impatto applicativo dell'arbitrato sull'art. 18 sarà limitato, ma l'evocazione di questo tema è in grado di egemonizzare il dibattito che, almeno sul piano tecnico, andrebbe affrontato partendo dalla considerazione che l'art. 18 non costituisce un vincolo di rango costituzionale per il legislatore. Vincolo che, invece, riguarda la clausola generale della giusta causa o del giustificato motivo cui si deve conformare il licenziamento e che viene applicata dai tribunali del lavoro con una cospicua dose di equità affine a quella esercitabile dagli arbitri.
Tornando alle questioni più generali, si deve prendere atto che le osservazioni formulate dal presidente muovono dai fondamentali del diritto del lavoro, per ricordarci che i crediti retributivi non si estinguono per prescrizione in pendenza del rapporto di lavoro e che le rinunzie e transazioni relative a diritti inderogabili del lavoratore sono invalide, potendo il lavoratore impugnarle anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Si tratta di norme più volte passate al vaglio della corte costituzionale e che costituiscono, in effetti, un caposaldo delle garanzie costituzionalmente dovute al lavoratore.
Proprio svolgendo fino in fondo il tema della tutela dei diritti del lavoratore in materia di rinunzie, transazioni e prescrizione si possono acquisire indicazioni utili anche per la nuova disciplina dell'arbitrato che consente ai contratti collettivi (vera valvola regolatrice del ricorso all'arbitrato) di ammettere la possibilità di clausole compromissorie tra datore e lavoratore, stipulabili anche all'atto dell'assunzione, aventi ad oggetto la devoluzione agli arbitri delle controversie di lavoro, con l'ulteriore possibilità per gli arbitri di decidere secondo equità, anziché secondo legge.
Si deve, infatti, evidenziare che sono perfettamente valide le rinunzie e le transazioni su diritti inderogabili quando esse siano state firmate dal lavoratore con l'assistenza del sindacato oppure presso la direzione provinciale del lavoro; così come l'estinzione per prescrizione dei diritti retributivi può avvenire anche in costanza del rapporto di lavoro se il dipendente è garantito dalla stabilità di impiego. Ciò dimostra che nel Dna delle tutele del lavoratore non si legge una preclusione assoluta per la disponibilità dei diritti, ma piuttosto la necessità che il lavoratore sia posto in condizioni di decidere consapevolmente sui propri diritti, anche su quelli derivanti da norme inderogabili.
Ipotizzando la trasposizione di questi concetti nella disciplina dell'arbitrato quest'ultima ben potrebbe essere resa coerente con il sistema delle attuali tutele. Ciò avverrebbe per fare qualche esempio riferito alla clausola compromissoria: a) escludendone la sottoscrizione prima della assunzione e consentendola, quindi, soltanto in costanza del rapporto di lavoro (e, naturalmente, dopo il superamento del periodo di prova). Come, peraltro, già previsto dall'accordo 11 marzo 2010, incorporabile nella legge; b) ammettendo alla stipulazione solo il lavoratore garantito dalla stabilità di impiego. In modo tale che, in caso di rifiuto alla sottoscrizione, il dipendente non abbia nulla da temere; c) imponendone la firma non solo avanti alle commissioni di certificazione, ma anche con l'assistenza del sindacato scelto dal lavoratore o, in alternativa, presso la direzione provinciale del lavoro.
Come si vede non si tratta di escludere l'arbitrato per le controversie relative ai diritti inderogabili – il che equivarrebbe a negare cittadinanza all'arbitrato nel diritto del lavoro – potendo anche per esse rivelarsi utile l'arbitrato per ottenere una rapida decisione della lite, a costi contenuti (e, comunque, non gravanti sul lavoratore) e da parte di arbitri la cui competenza e imparzialità non può essere messa in discussione a priori (considerato che devono essere scelti di comune accordo dal datore e dal lavoratore tra professori universitari ed avvocati cassazionisti).
Potrà, quindi, essere il legislatore ad indicare ai contratti collettivi questa strada lasciando ad essi, però, la competenza esclusiva a trovare soluzioni equilibrate e coerenti con la specificità dell'arbitrato.

3 aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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