Si fa presto a dire Bric. I mercati emergenti, guidati da Brasile, Russia, India e Cina, sono di gran moda e, per molti, una novità. Ci si dimentica che, nella finanza globale, contano da oltre tre secoli, fra successi e crisi. Persino la riunione del G-7, chiamata a rivitalizzare il club delle "vecchie" potenze mondiali, si è svolta a Iqaluit, l'avamposto artico dove già alla fine del Seicento operava la Hudson Bay Company, uno dei primi veicoli d'investimento nelle ricchezze emergenti. Pochi decenni dopo, scoppierà la bolla dei Mari del Sud, la prima di tante. A cavallo fra 800 e 900, l'attrazione degli emergenti andò in crescendo, fino alla Grande Depressione e ai disastri delle nazionalizzazioni di Messico e Russia.
Dal secondo dopoguerra in poi, l'investimento internazionale negli emergenti ha seguito cicli più o meno decennali di favore per il debito o per le azioni, ciascuno interrotto da una crisi, come ricorda una breve storia di questi mercati dell'acuto analista Walter Molano. Negli anni 70 si puntava sul rischio sovrano con i prestiti bancari. «Un paese non fallisce», sentenziava il presidente di Citibank. Finché nel 1982, fallì il Messico e con esso tutto il Sudamerica. Gli Ottanta furono gli anni perduti nelle ristrutturazioni di quel debito. E, allora, i Novanta degli emergenti furono all'insegna delle Borse, grazie anche a massicci piani di privatizzazione. Ma, dopo la crisi Tequila di metà decade, la convinzione che tutti sarebbero stati salvati comunque dal Tesoro Usa e dall'Fmi ridiede impulso alle obbligazioni. Il disastro argentino nel 2002 mise la parola fine alla passione dei capitali internazionali per i bond emergenti. E, così, il primo del Millennio è stato di nuovo il decennio delle azioni, spinto dalla parabola di crescita dei Bric.
La crisi globale degli ultimi tre anni ha, per una volta, riapparigliato le carte: nel 2008 la caduta di bond e Borse emergenti assieme, nel 2009 il boom dei mercati azionari e obbligazionari sempre in sincrono. Il 2010 può essere un altro punto di svolta: le attese di un rialzo dei tassi d'interesse imminente (gli emergenti crescono più dei paesi avanzati) possono colpire sia le Borse (in modesta flessione da inizio anno) sia i bond. Sarà un danno permanente? Solo se il mondo dovesse precipitare in un'altra fase di violenta avversione al rischio. Altrimenti, sia i mercati azionari (più crescita economica) sia quelli obbligazionari (finanze pubbliche più solide) sembrano meglio posizionati rispetto a quelli di gran parte dei paesi industriali, a partire da Stati Uniti e un buon pezzo d'Europa.
Almeno negli emergenti virtuosi: dal Brasile al Messico, dalla Cina ai suoi satelliti, alla Polonia. La divaricazione stavolta, nelle preferenze degli investitori, potrebbe essere non fra azioni e obbligazioni, ma fra questo gruppo di testa e gli eterni reprobi come l'Argentina e il Venezuela e alcuni paesi dell'Europa orientale con i conti in dissesto. Del resto, la Grecia insegna, il rischio sovrano non è morto.