«Nessun architetto donna avrebbe mai insistito per posizionare il pensile scolapiatti lontano dal lavello, né sorriso davanti alle mie insistenze, come ha fatto il professionista single che mi ha assistita; ma, insomma, l'acquirente sono io e ho optato per la scelta più funzionale. Però mi dispiace: parlavamo due lingue diverse e la traduzione delle aspettative reciproche ha fatto perdere tempo a entrambi. Con una donna, non sarebbe mai successo».
In questa confidenza solo apparentemente banale dell'attrice Martina Colombari c'è tutto il senso della Rivoluzione womenomics, la nuova economia basata sul potere d'acquisto delle donne, che sta spopolando in diversi saggi pubblicati negli Usa e che ha la sua pietra miliare nel libro omonimo di Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland, da domani in libreria anche in Italia (edito dal Gruppo 24 Ore).
Ecco, analizzata con il filtro del libro, la traduzione della frase di Martina Colombari, volontaria e testimonial della Fondazione Rava, relatrice alla presentazione del volume, lunedì 8 marzo a Milano. «Io, detentrice del know-how e della disponibilità economica, chiedevo funzionalità e sono stata irrisa da un consulente che ne sapeva meno di me. Comunque, decido io. Ma ho perso tempo e penso che una donna, che conosce di più le esigenze di un'altra donna, mi avrebbe fatto sentire più compresa».
E se i "problemi di genere", il diffuso sessismo di cui l'Onu accusa l'Italia, la carenza di donne ai vertici e persino la crisi economica fossero causate dalla sindrome lost in translation? Vale a dire, parafrasando il film del 2004, la scarsa capacità delle organizzazioni rappresentate prevalentemente da uomini di comunicare con il mercato, che ormai in maggioranza è costituito da donne? È questa una delle tesi più convincenti del saggio di Wittenberg-Cox, presidente dell'European professional women's network, e di Maitland.
È evidente, sostengono le autrici, lo scollamento tra l'offerta di prodotti e servizi e la domanda dei maggiori decisori d'acquisto (negli Usa per l'83% dei beni di consumo, nel Regno Unito per l'80% e si stima in Italia per il 70%, fonte Cunningham e Roberts). Ma, in fondo, che cosa chiedono queste consumatrici, definite da Chan Kim e Mauborgne «un oceano blu di opportunità in gran parte inesplorate, sia come fonti di talento sia come nuovo spazio di mercato»? Attenzione al design (sia nello sviluppo del prodotto sia nel marketing), semplicità d'uso (senza indulgere in tecnologismi fini a se stessi), cura dei dettagli. «Proprio come i prodotti Apple, che hanno tutte le caratteristiche dei marchi female-friendly» e non a caso sono premiati dal mercato, scrivono le autrici di Rivoluzione womenomics.
Sembra facile. Invece, secondo Silverstein e Sayre di Bcg (Women want more, 2009, in arrivo da Etas) buona parte dei prodotti e servizi sul mercato sono time-consuming, o poco curati nel design, o con prezzi o tariffe non comparabili, o disegnati per profili di rischio più adatti agli uomini (nel caso di prodotti finanziari). Oppure non esistono del tutto, come negozi e ristoranti con postazioni gioco per bimbi, polizze per finanziare gli studi, servizi di cura privati a costi ragionevoli e alta qualità.
Il risultato? Le donne spendono meno di quanto potrebbero. Nel dubbio, si paralizzano. Lo dimostra una ricerca citata nel volume, secondo cui l'elettronica di consumo inglese avrebbe perso nel 2007 ben 665 milioni di euro di mancati introiti per l'incapacità di connettersi con le clienti.
Le donne ormai producono il 40% del Pil dei paesi sviluppati. E lo sanno. Quindi basta parlare di pari opportunità: it's the economy, stupid! Questo, sembrano dire le autrici. Nessuna quota rosa, nessuna discriminazione positiva. Serve invece un cambio di cultura radicale, a partire dalle imprese. Per le quali non deve valere il motto “Think pink”, come evidenziato anche da Johnson e Learned: non serve dipingere di rosa un prodotto per proporlo al pubblico femminile.
Bisogna invece adottare il bilinguismo di genere, bandendo pregiudizi e stereotipi nella fase di progettazione, vendita, organizzazione del lavoro. Le imprese devono rendere i loro beni e i loro valori più rispondenti alle esigenze tanto degli uomini quanto delle donne: «In una parola, devono essere più umane», scrivono le autrici. Umanità chiesta anche da Kay e Shipman nel volume appena pubblicato da Cairo editore.
Di certo «è più facile capire le clienti se si ha qualche donna in più ai piani alti». E qui s'innesta il discorso sul deficit di leadership femminile nella e nelle società, a causa del «soffitto di cristallo» che impedisce l'accesso ai vertici o del «labirinto di cristallo», come viene definito sull'Harvard business review, o dei «tetti d'amianto» come li chiamano Wittenberg-Cox e Maitland, per far capire quanto questa polverina di anti-meritocrazia stia avvelenando l'economia.
In fondo, è la stessa conclusione alla quale è arrivata Martina Colombari: una donna mi avrebbe capita di più. Ed è il motivo per cui Luxottica sta procedendo nel piano per arrivare al 30% di donne nelle posizioni chiave, con l'obiettivo di servire meglio il 60% di clienti. Più donne ai vertici per convincere le donne a spendere di più: dalla crisi si può uscire anche così. Tutti insieme, ma parlando una lingua comune. Non girando il remake di Lost in translation.
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