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OLTRE LA CRISI / Giù le tasse? Facile a dirsi...

di Vincenzo Visco *

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3 Novembre 2009

Quando, un anno fa, l'economia mondiale rischiò il collasso finanziario, diffusa era la convinzione della necessità di interventi coordinati, immediati e consistenti per fronteggiare la crisi sia nel campo delle politiche finanziarie e monetarie che di quelle fiscali. Questa fu anche l'indicazione di Obama agli alleati europei. In Europa un'analoga proposta venne avanzata da Sarkozy e da Berlusconi, ma rifiutata dalla Germania, probabilmente per il timore di doversi fare carico delle crisi bancarie di altri paesi (salvo verificare che le banche più "intossicate", dopo quelle britanniche erano proprio quelle tedesche), e per la consolidata indisponibilità a ragionare ed agire avendo come riferimento l'economia europea non solo quella tedesca. Conseguenza di questa scelta è stato il ricorso da parte di ciascun paese a politiche strettamente orientate alla protezione delle produzioni nazionali con punte protezionistiche in alcuni di essi. Il risultato è stato un collasso del Pil in Europa ben superiore a quello americano, data l'insufficienza dello stimolo complessivo. In tale contesto l'Italia scelse una politica wait and see, immaginando di poter trarre qualche beneficio indiretto delle politiche degli altri paesi.
Vi fu allora chi sostenne che una politica che coniugasse politiche di sostegno una tantum (come il pagamento dei debiti arretrati della Pa, o un programma di investimenti straordinari nell'edilizia da affidare ai Comuni), politiche monetarie non convenzionali (soprattutto la garanzia dei crediti delle banche nei confronti delle piccole o medie imprese, o la concessione di un credito di imposta retrattivo nei confronti delle imprese che avevano effettuato investimenti di modernizzazione negli anni precedenti la crisi), e riforme strutturali (ammortizzatori sociali, sistemazione definitiva della questione previdenziale, più altre misure di contenimento strutturale della spesa pubblica, alcune liberalizzazioni, alcune misure di perequazione tributaria compresa la revoca di misure di sgravio non necessarie e della soppressione di norme di contrasto dell'evasione), avrebbe potuto avere il sostegno dei mercati e consentire di "scambiare" un aumento di deficit e di debito transitorio, con una prospettiva di risanamento certo e di crescita più dinamica.
Si trattava in sostanza di «non perdere l'occasione offerta dalla crisi», come molti hanno detto. L'operazione ovviamente sarebbe stata possibile esclusivamene nel contesto di una forte coesione nazionale, e di altrettanto forte unità sindacale.
Le cose sono andate diversamente, come è noto, e oggi le questioni si ripropongono in un contesto se è possibile ancora più difficile economicamente: ripresa lenta, incerta e problematica, rischio di chiusura per molte aziende, sofferenze bancarie in aumento e quindi minori possibilità per le banche di fornire credito, aumento della disoccupazione alle cui statistiche ufficiali si devono aggiungere i cassaintegrati e i lavoratori precari i cui contratti non sono stati rinnovati, forte aumento del debito pubblico, procedura per disavanzo eccessivo in sede europea.
Il dibattito recente si concentra sulla possibilità ed utilità di una riduzione delle imposte, in particolare l'Irap. Naturalmente abbassare le tasse, sempre che si abbiano le risorse, è sempre utile, tuttavia è molto dubbio che nella situazione attuale di sovrapproduzione generalizzata e output gaps molto consistenti, la riedizione di una politica dell'offerta, sia la soluzione migliore. Altrettanto perplessi lascia l'ipotesi di ridurre le tasse sulle imprese (sempre l'Irap), aumentando al tempo stesso l'Iva, ipotesi che sarebbe equivalente all'ennesima svalutazione competitiva effettuata per via fiscale (l'ultima fu la riduzione del cuneo fiscale fatta dal Governo Prodi). Né va dimenticato che un aumento delle imposte sul consumo equivale ad un aumento del prelievo sul fattore lavoro.
Ciò di cui invece ci sarebbe bisogno è, ancora, una politica di espansione della domanda coordinata a livello europeo e guidata dalla Germania, paese che, insieme alla Cina, presenta il più elevato surplus di parte corrente derivante dal suo modello di crescita export-led, sostanzialmente mercantilista, quindi contribuisce a ridurre la domanda in sede europea e globale. Poiché è da escludere che la Germania possa cambiare la sua politica tradizionale (almeno finché non sarà evidente che essa è dannosa anche per la stessa Germania), non resta che concentrarci sui nostri problemi specifici che sono strutturali: riequilibrio definitivo e dinamicamente stabile della finanza pubblica, investimenti infrastrutturali utili a ridurre i costi di produzione delle imprese, riforma e modernizzazione delle pubbliche amministrazioni e dei sistemi giuridici rilevanti per la rapidità e l'efficienza dei processi di decisione; superamento del nanismo aziendale con incentivi alla crescita delle imprese, liberalizzazioni per ridurre la posizioni di rendita e di monopolio ed estendere la capacità produttiva del paese, redistibuzione del reddito per aumentare i consumi, e sistemi di garanzia uniformi e adeguati a fornire a tutti tutte le garanzie possibili compatibilmente con le risorse. In sostanza le prospettive future dell'economia italiana, una volta persa l'occasione di "mettere a profitto" la crisi, non sono tanto legate ad interventi congiunturali di breve periodo, bensì alla realizzazione di riforme incisive che possono avere effetto soprattutto nel medio periodo, salvo un forte e positivo effetto annuncio iniziale.
  CONTINUA ...»

3 Novembre 2009
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