Cosa succederebbe se gli Stati Uniti fallissero? Se a un certo punto l'iniezione di prestiti che c'è alla base del debito pubblico americano si rivelasse letale?
A lanciare la provocazione è Robert J. Samuelson, che dalle colonne del Washington Post illustra uno scenario che da "ridicolo" è diventato "possibile": «I governi dei paesi ricchi stanno ricevendo talmento tanto denaro in prestito - scrive - che è ipotizzabile la rottura del patto alla base del crescente debito pubblico: chi presta continuerà a farlo e i governi pagheranno sempre». Samuelson fa l'esempio del dollaro: quello che ha impedito fino a oggi il crollo della moneta americana è la diffusa sicurezza nella stabilità politica e nella bassa inflazione degli Stati Uniti. «Qualcosa - sostiene - potrebbe mandare in frantumi quella sicurezza, domani o fra dieci anni». La questione ha più a che fare con percezione e impulsi che con i calcoli degli economisti: «Gli Stati Uniti possono vivere di prestiti fino a quando resiste la percezione di un sistema che regge», scrive. Se quella viene meno, misure impopolari di contenimento del debito - come il taglio della spesa o l'aumento delle tasse - non farebbero altro che peggiorare il deficit e indebolire l'economia. Così il governo potrebbe trovare nell'opzione fallimento il male minore per il paese.
«Ci troviamo davanti a un esempio perfetto di fantaeconomia», afferma Paolo Garonna, segretario esecutivo della Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite. «Nessuno ha interesse a far collassare il sistema mondiale: la fine americana implicherebbe quella globale».
«L'idea di Samuelson mi sembra un paradosso che serve solo ad aprire una discussione sulla politica economica di Obama - commenta lo storico Massimo Teodori, autore del libro Storia degli Stati Uniti e il sistema politico americano (Newton & Compton, Roma, 2008) - e non una previsione economicamente fondata».
Se è così, però l'operazione di Samuelson è riuscita alla grande: poche ore dopo la pubblicazione dell'articolo sul sito del quotidiano i commenti erano già centinaia, come se tanti americani sentissero aria di crack.
Davvero «l'America è già fallita»? Sì per il blogger Rabbi Samuel Hurt che individua la causa nella politica di protezione delle lobbies. Jonathan Denver accusa invece il presidente Obama «incapace di gestire la crisi e stretto tra le esigenze di Wall Street e la sua ignoranza economico-finanziaria». Molti, come Greta Holms, descrivono gli Stati Uniti «ostaggio del surplus cinese», altri cercano già di datare l'inizio del "disastro americano".
Paolo Garonna lo rinvia al 15 agosto 1971, quando il presidente Richard Nixon annunciò la decisione di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, aprendo la strada all'egemonia del biglietto verde e con essa degli Stati Uniti: «Da allora non c'è più stato un sistema, spiega Garonna, e si è diffusa l'idea che i mercati fossero in grado di regolarsi da soli». La fine degli accordi di Bretton Woods segna l'inizio delle crisi: «Tutte diverse ma che si contraddistinguono per una certa regolarità e per una peggioramento continuo». Garonna contesta la tesi di Samuelson ma avverte: «In un mondo così privo di regole è un miracolo che il sistema non sia collassato». E si chiede: «Questa crisi l'abbiamo rimessa in sesto, ma cosa succederà alla prossima?».
«Sembra strano - ribatte Teodori - che se gli Usa non sono falliti quando è scoppiata la bolla finanziaria, possa accadere nel momento in cui si inizia a uscire dalla recessione».
Se la débâcle contemporanea dei cinquanta stati è impossibile, lo storico dell'economia Giulio Sapelli afferma che è importante monitorare il deficit dei singoli stati. Lo spauracchio è la California: «Sta fallendo a causa di cattive politiche perpetuate nel tempo… Anche quando ha capito che la green economy era insostenibile, l'amministrazione Schwarzenegger ha continuato a spendere, fino all'esplosione del deficit». Un rischio che per Samuelson e la blogosfera americana non è poi troppo lontano.