La nascita dell'economia aziendale, avvenuta nei primi decenni del Novecento come evoluzione della Ragioneria, è indotta dalle grandi trasformazioni economiche e sociali del XIX e dell'inizio dei XX secolo, dalla rivoluzione industriale e dai primi timidi provvedimenti in materia di sicurezza sociale. Queste trasformazioni cambiano radicalmente l'economia della produzione e la fisionomia dell'azienda, che vede dilatare i propri investimenti, crescere i costi fissi, infittirsi i legami tra decisioni presenti e decisioni future.
Ne consegue che la contabilità aziendale ha sempre più a che fare con stime, congetture, ipotesi. I messaggi che essa trasmette e i numeri che li esprimono richiedono sempre più di essere interpretati. Il senso dell'economia aziendale è tutto qui, in quest'allargamento di prospettiva: non ha senso indagare sui metodi contabili se non si conosce la realtà economica a cui vanno applicati.
Nasce nel contesto di un "sistema capitalistico". E accetta tacitamente l'idea dello scambio e del profitto, ponendo su quest'ultimo la sua enfasi. Su questa base conosce un forte sviluppo, non senza ambiguità, fino agli anni Sessanta. Poi entra in crisi. Per trarla fuori dalle secche occorre darle un preciso quadro di riferimento socio-politico. Questo quadro può essere quello proprio di uno stato moderno, retto da una "democrazia liberale".
In comune con il sistema capitalistico, il sistema di democrazia liberale ha l'esigenza di costruire un "mercato" il più possibile efficiente. Ma non ha preferenza in materia di modelli organizzativi della produzione. Lascia che siano i privati a scegliere, si affida al loro spirito d'iniziativa: di qui la centralità della persona. Il mercato non è funzionale all'impresa ma alla libertà delle persone.
L'economia aziendale acquista così maggior respiro: "parte" senza alcuna titubanza dall'uomo per diventare la disciplina che studia l'azienda come strumento organizzato per la produzione di beni e servizi; o, più semplicemente, la disciplina che studia i modelli organizzativi della produzione. L'oggetto non è più un solo modello - l'impresa capitalistica - ma la pluralità dei modi in cui gli uomini si organizzano per soddisfare i propri bisogni.
Con questo ampliamento di oggetto, la materia è chiamata anche a una funzione pedagogica: deve impegnarsi a diffondere una cultura aziendale, momento essenziale di quella cultura economica di cui in Italia si lamenta l'assenza. Che vi sia un deficit di cultura economica e aziendale, lo dimostra il fatto che a volte anche persone di grande finezza e onestà intellettuale bollano sbrigativamente come ottusa aziendalizzazione - fatta a danno dei soggetti più deboli - ogni tentativo di mettere sotto controllo il costo di alcuni servizi pubblici, come la sanità o la scuola. Ecco allora che l'economia aziendale deve far comprendere che portare efficienza nella gestione di certi servizi pubblici, attraverso adatti modelli aziendali, non significa disattenzione per i soggetti più deboli, tanto più che essi sono spesso i primi a trarne vantaggio.
L'economia aziendale deve sradicare il diffuso convincimento che l'azienda sia la sede elettiva dell'egoismo umano. Deve far comprendere che l'azienda non ha fini suoi propri: essa è strumento di grande duttilità organizzativa, aperta ai fini più diversi che le persone o le istituzioni di volta in volta intendono affidarle. Essa impone solo il rispetto del vincolo che i costi del produrre vengano costantemente coperti. Non impone che a coprirli siano i destinatari della produzione. Possono coprirli soggetti diversi, pubblici e privati: lo stato attraverso sovvenzioni o trasferimenti, ma anche privati attraverso contributi o atti di liberalità, indotti, magari, da un'illuminata politica fiscale dello stato. Ecco i punti intorno ai quali l'economia aziendale deve instancabilmente lavorare, fino a farne oggetto del proprio impegno civile.