Come avvenne con il fallimento di Lehman anche la crisi in Grecia pone uno scomodo interrogativo sull'adeguatezza della democrazia di fronte a fenomeni finanziari violenti, incontrollabili e indifferenti ai perimetri nazionali della politica. La scarsa capacità di analisi del problema greco, delle sue complesse interazioni e infine la debole capacità di decisione testimoniano l'imbarazzo e la lentezza delle democrazie in Europa. Dall'Asia arrivano già le osservazioni di chi ritiene che l'impasse europea sia una prova della superiorità dei sistemi autoritari.

La stessa cosa è già successa negli Usa. Nel 2008 l'allora ministro del Tesoro, Henry Paulson, fece fallire Lehman scatenando una crisi globale perché non voleva affrontare il Congresso che aveva già una volta bocciato un piano di salvataggio delle banche, l'estremo tentativo di Paulson fu un accordo extra-politico e non pubblico con l'inglese Barclays che fallì come era prevedibile.
La reticenza di Angela Merkel a partecipare al salvataggio greco è altrettanto significativa. Dal giorno della sua nomina, il voto in Vestfalia rappresenta l'appuntamento politico che determina le sorti di una coalizione nata male e cresciuta peggio.

La cancelliera vuole vincere il voto - e i sondaggi da una settimana la rivedono vincente - per evitare un Bundesrat bloccato che non garantirebbe l'approvazione parlamentare delle iniziative di legge più importanti nel corso di tutta la legislatura.

La posizione della cancelliera non ha l'obiettivo di contrastare l'opposizione (più favorevole ad aiutare la Grecia rispetto alla coalizione di governo), ma di corteggiare l'insofferenza dei due terzi dei tedeschi nei confronti dei salvataggi con denaro pubblico. E non si tratta di un sentimento puramente anti-europeo o nazionalista. La stessa percentuale di contrari all'intervento per la Grecia si ritrova nei sondaggi sui salvataggi di Opel e Karstadt. Si tratta di un generale senso di sfiducia dei cittadini tedeschi nelle ragioni della solidarietà, che nasce dall'unificazione delle Germanie e dalla trasformazione del modello solidale tedesco in un modello di trasferimento di reddito a un'unica direzione da Ovest a Est. Come avrebbe detto Max Weber è debole la solidarietà che non può mai essere reciproca. In questa ottica popolare, la giustizia sociale si è trasformata in ingiustizia sociale, l'uguaglianza europea in disuguaglianza dei contribuenti e la rappresentanza asimmetrica degli stessi cittadini dei diversi paesi nel Parlamento europeo ne è diventata una testimonianza contabile, come ha notato la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 2009.

Il vuoto di comprensione della finanza è drammatico da sempre nell'amministrazione tedesca (due sole persone forse nel ministero delle Finanze hanno esperienza di mercati) che delega incautamente gran parte dell'analisi alla Deutsche Bank e quindi ai suoi interessi. In questo quadro di consapevole estraneità dall'economia, Angela Merkel ha privilegiato sconsideratamente i tempi della politica su quelli dei mercati abbandonandosi a un immobilismo tutt'altro che neutrale.

In tale strategia il tempo della politica, il tempo cioè necessario a spiegare ai cittadini la "convenienza" di un loro contributo al salvataggio greco, richiedeva un lungo avvicinamento verso l'orlo del precipizio. Solo guardando la cordata europea scivolare verso il burrone, gli elettori tedeschi avrebbero capito che anch'essi ne potevano essere trascinati. Il costo dell'intervento sarebbe sembrato allora finalmente giustificato e la scelta del governo obbligata. La paura dunque come argomento politico. Ma la paura viene colta molto più tempestivamente dai mercati, che su di essa possono anche guadagnare in particolare nell'incertezza di una risposta politica che i mercati stessi influenzano e in molti casi orientano astutamente in un gioco di opinioni e rimbalzi mediatici permeati di conflitti di interesse. La strategia politica del rinvio era dunque destinata a fallire.

Sarebbe stato possibile utilizzare una strategia politica diversa, seria e trasparente, non basata sulla paura del baratro? Non è scontato. Spesso si osserva un'analogia tra la democrazia e il mercato, entrambi sono sistemi che non individuano un livello di equilibrio ottimo del governo o dei prezzi, ma che invece consentono la continua incessante correzione degli errori dei governi e dei prezzi. Per quanto suggestiva questa analogia trascura una sostanziale differenza che rende critica la convivenza tra democrazia e mercato: la democrazia vive di credibilità (è la promessa, dice Hannah Arendt, il test della democrazia) di impegni intertemporali, mentre al mercato la correzione richiede solo la presenza di interessi contrapposti. Non è necessario che gli interessi dei mercati siano razionali, né coerenti, purché essi siano diversi. Alla democrazia è necessario invece un continuo processo di verifica, il terreno su cui essa si muove deve essere solido per garantire il mantenimento delle promesse.

Ed è per questo che la politica non poteva funzionare nel caso greco. La credibilità di Atene è stata distrutta dal proton-pseudos, la bugia primaria: le cifre falsificate all'inizio hanno rappresentato la premessa corrotta di un sillogismo che non poteva che essere sbagliato. I greci chiedono aiuto per i loro conti, non possono salvarsi da soli e così mettono a rischio anche i nostri interessi, quindi dobbiamo aiutarli. Ma ecco la bugia: i conti dei greci erano falsi e la loro impossibilità di aiutarsi da sé è parsa quindi anch'essa una finzione, quindi non dobbiamo aiutarli. Sia perché devono presentare i conti giusti, sia per ragioni morali.

In un capitolo dedicato alla psicopatologia, Freud introduce il concetto di bugia primaria in rapporto all'isteria: «Ogni adolescente deve portare in sé il germe dell'isteria» e «delle condizioni determinanti della bugia originaria». E forse questa patologia dell'euro è davvero un problema di immaturità.

La risposta matura richiede, se esiste, la presa di consapevolezza dell'Europa. La coscienza che i destini sono comuni. Così perfino la politica di competizione commerciale della Germania richiede che altri paesi in deficit acquistino le esportazioni tedesche. E se i risparmi tedeschi devono trovare una destinazione estera per avere i rendimenti necessari a una popolazione che invecchia allora devono cercarli in paesi che offrono tassi più elevati di quelli normali in un paese a bassa crescita interna come appunto la Germania. Ma allora questi capitali non sono più solo tedeschi, ma anche greci o spagnoli, così come lo sono certamente le tasse che ne alimentano i rendimenti. Così come il commercio e lo stesso ciclo economico dei paesi europei non sono l'uno indipendente dall'altro.

Esiste una narrazione che renda tutto ciò accettabile politicamente senza poter più far ricorso ai miti fondativi dell'Europa, cioè alla solidarietà tra i superstiti di una guerra mondiale condotta al nostro interno? Questa crisi la offre ai nostri occhi e sarà forse l'ultima e unica possibilità: non la paura, come maestra dei nostri comportamenti politici, ma il coraggio con cui la si deve combattere.