C'è stato un tempo in cui l'espressione «missione di pace» accendeva dibattiti roventi, faceva incrociare lame in Parlamento e pugnali su quotidiani e tv. Era un tempo in cui sui contigenti italiani in Libano o in Bosnia si faceva obiezione di coscienza e si disfacevano maggioranze, inciampavano carriere individuali (con pianti disperati sui banchi di Montecitorio) e cadevano (o quasi) primi ministri. Sembra molto tempo fa, ma non lo è. Oggi sembra scontato - in realtà è una mezza rivoluzione - che su temi del genere si faccia come in ogni altro paese del mondo. Che cioè i casi di coscienza lascino il posto alle necessità dettate dall'essere l'Italia inserita in un preciso sistema di alleanze internazionali. Oggi può accadere che un ministro degli esteri annunci in Parlamento che il contingente italiano in Afghanistan salirà a breve da 2.700 a 4.000 effettivi e nessuno, tra i banchi dell'opposizione, urli al tradimento dell'articolo 11 della Costituzione. Può succedere che un segretario di Stato Usa dica al suddetto ministro «contiamo su di voi» e nessuno se ne stupisca come di un complimento un po' troppo generoso o lo bolli come ennesima conferma di una sovranità perennemente limitata. Oggi può accadere che l'Italia, incrinata e divisa su tutto, ritrovi compattezza nel difendere le proprie forze armate impegnate nel mondo a difendere la pace. Può succedere che, almeno su questo, sia un «paese normale».
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