Se sui giornali di tutto il mondo si parla di Akmal Shaikh, 53 anni, ucciso con iniezione letale in Cina per traffico di droga, non è perché è stato condannato a morte. Se ieri abbiamo visto sul web montare, e poi sgonfiarsi, il rischio di una crisi diplomatica internazionale, protagonisti un Gordon Brown «inorridito e deluso» e uno sdegnato ministro degli esteri cinese Jiang Yu, non è per l'ennesima vittima di quel residuo di Medio Evo chiamato pena di morte. È solo perché Shaikh, origini pakistane, aveva passaporto britannico. Come dire: nessun tocchi Caino, ma soprattutto se Caino è cittadino di una grande potenza e i suoi governanti hanno da opporre argomenti di tipo economico a chi spinge lo stantuffo della fine. Quanti oggi si stracciano doverosamente le vesti per Shaikh dovrebbero essere pronti a farlo sempre e comunque, si tratti dei dissidenti iraniani incarcerati a Teheran, dell'avvocato vietnamita Le Cong Dinh a rischio esecuzione per attivismo umanitario, dei dead man walking detenuti nei 35 stati statunitensi in cui si applica la pena di morte. Tutti avvolti nel sudario di un cono d'ombra mediatico. Ricordarsi nei giorni dispari dei diritti umani è un'amnesia imperdonabile. Farlo guardando alla carta d'identità del condannato è immorale.