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Quadratura del cerchio gettito e tagli

di Roberto Perotti

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30 gennaio 2010

Tutti vogliono una riforma fiscale. La vogliono i partiti, i sindacati e Confindustria, come ha ribadito ieri la presidente Emma Marcegaglia. Alcuni vogliono ridurre il carico fiscale; altri vogliono mantenere il gettito attuale. Tutti si aspettano significativi effetti macroeconomici. Ma è bene non farsi illusioni: è molto difficile attuare una riforma fiscale duratura che non riduca il gettito, che abbia effetti macroeconomici rilevanti e che non confligga con uno o più degli scopi per cui tipicamente viene proposta. Vediamo il perché.

Un primo scopo di una riforma fiscale è la semplificazione. Semplificare un sistema bizantino prodotto nei decenni dall'opera instancabile delle lobbies è assolutamente meritorio, e va fatto; ma se veramente questa operazione è a parità di gettito, è irrealistico attendersi grossi effetti macroeconomici dalla combinazione di tre detrazioni in una.

Il secondo scopo di una tipica proposta di riforma fiscale è ridurre la tassazione su qualche base imponibile, considerata iper-tassata o comunque meritevole di una riduzione per motivi più o meno nobili. Senonché, perché questa operazione sia a parità di gettito, si devono aumentare le tasse su qualche altra base imponibile. Ma tutte le tasse comportano distorsioni. Ognuno mette in evidenza le distorsioni che intende ridurre e dimentica convenientemente quelle che andrebbe ad aumentare. Così, c'è chi vuole ridurre la tassazione sui redditi e aumentare quella sui consumi; e magari in un'altra trasmissione televisiva sostiene la necessità di stimolare i consumi per rilanciare l'economia. Altri invece vogliono tassare di più le rendite, cioè il risparmio, e meno il lavoro; e magari in altre sedi esaltano le italiche virtù del risparmio.

Per altri bisogna tassare di più le imprese, che fanno investimenti, e meno il lavoro, ma allo stesso tempo bisogna investire di più per rilanciare l'economia. Oppure è necessario tassare di più il lavoro e meno le imprese, ma anche ridurre il costo del lavoro che ci rende meno competitivi. Se si aggiunge che non sappiamo nulla degli effetti macroeconomici relativi di due tipi di imposte, anche in questo caso è illusorio attendersi grandi effetti macroeconomici da questa operazione: l'effetto netto più probabile di una tassa che scende e una che sale è vicino a zero.

Il terzo scopo è aumentare l'equità. Nessuno oserebbe proporre una riforma fiscale che renda il sistema impositivo meno progressivo (anche se misurare la progressività complessiva di tutte le imposte combinate è un'impresa disperata). Nutro grande ammirazione per chi sa con certezza che tassare del 2% in più i ricchi e del 3% in meno i poveri ha questo o quell'effetto macroeconomico; in realtà, noi non sappiamo neanche se l'effetto netto sulla domanda aggregata e sugli investimenti sarà positivo o negativo.

Non solo, ma è facile vedere perché è impossibile raggiungere tutti questi scopi a parità di gettito. Per semplificare le aliquote, riducendole per esempio da cinque a due, senza aumentare le distorsioni, è necessario ridurre l'aliquota ad alcuni contribuenti; ma allora la riforma non sarà a parità di gettito (e infatti quasi tutte le proposte di riforma «a parità di gettito» comportano una riduzione delle entrate). Per lo stesso motivo è molto difficile anche mantenere la progressività attuale, a maggior ragione aumentarla.

Tutti questi problemi scompaiono se la riforma proposta riduce significativamente il gettito totale. Lo scopo di una tale riforma, oltre ai tre precedenti, è di «dare una scossa all'economia», che ci si affidi all'effetto benefico sugli incentivi a lavorare e investire (la posizione liberista) o all'effetto sulla domanda aggregata (la posizione keynesiana). Ma questa proposta comporta un altro problema: ridurre le aliquote è la cosa più semplice di questo mondo; purtroppo però non è possibile tagliare permanentemente le tasse senza ridurre la spesa, tanto più in un paese ad alto debito come l'Italia. Eppure, la spesa è la grande esclusa dal dibattito.

Molti citano gli esempi di Reagan e Thatcher. Ma dimenticano che uno degli scopi principali di quei tagli alle tasse era costringere i governi futuri ad abbassare la spesa pubblica. Da noi un partito di riduzione della spesa non esiste, come Tremonti ci ha ricordato recentemente nel modo più chiaro possibile: «Un conto è fare salotto, un conto è l'attività di governo». Questa può essere una fortuna o una disgrazia, a seconda dei punti di vista; ma la conseguenza certa è che ogni discorso di riduzione delle aliquote è nel migliore dei casi ozioso, nel peggiore pericoloso. Né serve parlare di riduzione della spesa, rimandandola al futuro: quando il futuro arriva, si troverà un motivo per rimandare ancora.

La realtà è che non si possono avere aliquote anglosassoni e spesa pubblica scandinava. Sarebbe bello, ma non è possibile. D'ora in poi, chiunque proponga di ridurre le tasse dovrebbe dirci anche quali spese tagliare in modo politicamente fattibile (dove l'enfasi sta sulle due ultime parole): se si propone di tagliare le imposte del 2% del Pil, si dica anche dove e come tagliare 30 miliardi di spesa. E non basterà la solita frase sui «tagli agli sprechi». Per inciso, e per evitare l'accusa di «fare salotto», ho tante idee su quali spese tagliare, ma ahimè, realisticamente nessuna che, nel clima attuale, sia politicamente fattibile.

roberto.perotti@unibocconi.it

30 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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