Preoccupa osservare che la distanza tra le analisi economiche e le ricette politiche continua ad aumentare. L'abbiamo visto per il dibattito sulle cause della crisi finanziaria iniziata nell'agosto 2007 e ancora in corso. La colpa principale era nello squilibrio macroeconomico tra l'eccessivo debito di alcuni paesi e il troppo risparmio nazionale di altri? Oppure, la crisi era soprattutto dovuta all'eccessiva espansione di strumenti troppo speculativi?
Abbiamo rivisto quel contrasto tra analisi e ricette con riferimento al crollo post-scomparsa-di-Lehman della produzione industriale mondiale. È questo un tipico shock supply side da curare con "politiche dell'offerta", cioè con riduzioni del settore pubblico, eccetera? Oppure la crisi dell'industria è dovuta a caduta della domanda (vicina o lontana), la cui ripresa è quindi da incentivare con nuovi stanziamenti di fondi pubblici? L'abbiamo da ultimo rivisto con riferimento al dibattito sul proposto "Fondo monetario europeo": serve come il Fondo monetario internazionale, che presta soldi al paese che ha una crisi di bilancia dei pagamenti e che verrà sottoposto alle cure del caso (anzitutto, una buona svalutazione del cambio e poi, quando necessaria, una forte riduzione anche del deficit pubblico); oppure, è solo il bastone che mancava per rendere più efficace il Patto di stabilità europeo?
Gli equivoci e anche le reciproche critiche tra politici ed economisti sono ormai di moda, ma la verità è un'altra: l'analisi è necessaria, ma sempre più difficile in un mondo che non sta fermo e dove siamo sempre in ritardo rispetto ai problemi: anzitutto da capire e, subito dopo, da affrontare. Lo vediamo bene nelle recenti polemiche franco-tedesche sull'eccessiva spesa (privata e pubblica) di alcuni paesi della zona-euro rispetto ai più "virtuosi", come si considera la Germania che continua ad accumulare un crescente avanzo della sua bilancia dei pagamenti.
A ben guardare, ci siamo tutti dimenticati che il dibattito politico ed economico che vent'anni fa portò all'adozione dell'euro era rivolto a ottenere – anche grazie alla moneta comune – un miglior funzionamento del "mercato unico", cioè della capacità di tutti noi d'integrarci in un solo grande mercato, caratterizzato da elevata mobilità e flessibilità, sia per i beni sia per i fattori produttivi caratteristici di ciascun paese membro.
Negli ultimi anni tutto ciò è avvenuto davvero, o è avvenuto il contrario? Cioè, una volta fatto l'euro, ha prevalso la forza della globalizzazione, con integrazione con paesi non-euro, rispetto al disegno originario sancito a Maastricht nel 1992, quando ancora non si era pienamente capito che il mondo globale era destinato a contare ben più della forza dell'asse Parigi-Berlino?
Quel paradosso l'abbiamo veramente capito in questi giorni osservando il dibattito se la crisi greca dovesse essere idealmente curata dall'Fmi (cioè dal mondo globale), o (qualora l'avessimo già avuto) da un Fme, cioè da un'istituzione della sola zona-euro. I sostenitori di questa seconda tesi, come ha fatto il governo tedesco, si sono trovati a dover affermare nel corso della stessa giornata sia una cosa sia il suo contrario. Cioè, sia la prevalenza dell'Europa come centro di decisione politica, sia la prevalenza dell'economia globale come mercato rilevante per i successi della propria economia.
C'è il pericolo che un divario molto simile si apra anche in Italia: il mondo politico, per ovvie ragioni istituzionali, ritenendo Bruxelles (e in parte Francoforte) come il momento decisionale più rilevante; la parte più moderna, e quindi più globale, del paese, cioè la sua industria manifatturiera, ritenendo invece che il vero ambito in cui si misurano le nostre virtù in prospettiva non sarà più l'Europa, ma il mondo intero che oggi (e probabilmente ancor di più domani) incomincia dai paesi più lontani, cioè dall'Asia.