A parte i demografi, che si occupano del problema per mestiere, pochi economisti e la Chiesa (per ovvie e comprensibili ragioni), della questione demografica, intesa come sviluppo o decrescita della popolazione italiana, in Italia ci si interessa assai poco. Non che ogni tanto non suoni un allarme, e non si metta l'accento sui dati che vedono l'Italia in coda alla classifica mondiale sui dati relativi alle nascite. Ma in fondo a questa immagine ci siamo abituati da diversi anni: il nostro è un paese vecchio che si avvia a diventare più vecchio, il nostro è un paese di pensionati, il nostro è un paese generazionalmente bloccato, fermo in tutti i sensi.
Se questo è il quadro che fa sfondo alla questione, non deve allora meravigliare se le recentissime analisi dell'Istat (relative al 2008, ultimo anno disponibile) sull'andamento della popolazione siano passate pressoché sotto silenzio, salvo un generico sospiro di sollievo per la ripresa della fecondità. Lo stesso silenzio, non a caso, che sul problema ha fatto a sua volta da sfondo alla campagna elettorale delle regionali, a parte, come vedremo, qualche impegno assunto dai politici messi un po' sotto pressione dalla galassia delle associazioni familiari.
Dice l'Istat che nel 2008 abbiamo toccato il massimo delle nascite dal 1995, l'anno nero: 577mila contro 526mila, che già rappresentavano la metà esatta del dato relativo al 1964. Nel 1995 registrammo l'indice di fecondità più basso del mondo, pari a 1,19 figli per donna. A fine 2008 siamo risaliti a quota 1,42, comunque al di sotto della quota - ritenuta fisiologica - di 2 figli per donna.
Siamo in solida ripresa? No, suggeriscono i dati Istat. Perché il recupero viene da due fattori (le nascite della popolazione immigrata e le nascite "ritardate", cioè quelle avvenute per scelta di donne di almeno 35 anni nate tra la seconda metà degli 60 e i primi anni 70) destinati entrambi a entrare in fase calante, senza contare il fatto che è già venuto meno lo zoccolo duro demografico del Sud: 1,35 figli per donna contro la media di 1,42. Ci avviamo, insomma, verso una nuova stagione di contrazione demografica, il che è un ulteriore elemento di grave preoccupazione per un paese afflitto cronicamente dai problemi di crescita bassa del Pil e sbilanciato, nel suo welfare distorto, dal peso abnorme delle pensioni.
La politica e i politici dovrebbero occuparsi del problema. Ma resiste il riflesso condizionato per il quale questo è un tema forte della Chiesa e dunque è meglio restarne un po' alla larga. Oppure si fanno promesse tattiche. O si firmano anche documenti impegnativi, come quello del Forum delle famiglie sottoscritto prima delle elezioni da 20 governatori regionali in pectore e da 500 candidati consiglieri, anche se l'esperienza insegna che troppe volte le questioni sono state poi lasciate ammuffire nei cassetti.
La depressione demografica è un male che si può curare con diverse formule di politica economica, a partire da quella fiscale. Le soluzioni possono essere diverse, ma in nessun caso il tema si può sottovalutare. Ha ragione il banchiere Corrado Passera quando osserva che «la fuga dalla responsabilità a impegnarsi a riattivare la crescita è pervasiva, contagiosa, dilagante». Non porsi il problema demografico ne è la chiara riprova.
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