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Ministri e Banche / A ciascuno il suo mestiere e il suo dovere

di Orazio Carabini

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30 ottobre 2009

È meglio dirlo a bassa voce perché le sorprese non finiscono mai. Eppure sembra che, alla buon'ora, i protagonisti della politica e dell'economia abbiano imboccato la strada giusta: quella di collaborare su un progetto. Che in questo momento ha un solo, fondamentale obiettivo: uscire dalla crisi il più rapidamente possibile, senza danneggiare il tessuto sociale e quello produttivo, e senza compromettere in modo irrimediabile l'equilibrio della finanza pubblica.

Sono bastati pochi giorni per ricondurre tutti a una dimensione "cooperativa" che noi del Sole 24 Ore abbiamo sempre auspicato, a lungo da soli e qualche volta irrisi, perché sembrava impossibile da recuperare. Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, messi da parte i toni polemici nei confronti dei banchieri, si è rivolto loro con fare bonario. Ha ribadito le sue convinzioni ma ha sollecitato la collaborazione delle banche valorizzandone la funzione nel sistema: siete imprese ma siete anche un'infrastruttura, indispensabile per far affluire il denaro all'economia reale. Qualcuno dirà che la conversione è l'effetto dell'indebolimento politico del ministro, attaccato, nel governo e nella maggioranza, dai sostenitori di una politica di bilancio più aggressiva. Ma con questa mossa Tremonti ha creato un ulteriore argine al dilagare delle forze che spingono per esautorarlo.

I banchieri, in fondo, non aspettavano altro. Stremati dalle accuse di egoismo e di incapacità che il ministro non ha lesinato, ieri, intuendo che il vento stava per cambiare, gli hanno rivolto un timido applauso già prima che prendesse la parola. Quasi a incoraggiarlo, a segnalargli che "l'incontro della pace" di lunedì a Milano con Giuseppe Guzzetti, Fabrizio Palenzona, Alessandro Profumo e Corrado Passera poteva rappresentare davvero la svolta tanto attesa.

Adesso bisogna verificare che questa entente cordiale produca risultati concreti, che il credito vada dove serve (senza che questo significhi erogarlo scriteriatamente) e che tutti gli strumenti possibili vengano attivati. Il fondo, o i fondi, per sostenere con capitale di rischio lo sviluppo delle piccole imprese meritevoli, per esempio, promette bene. Anche se non sarà semplice tradurre il progetto in uno strumento operativo.
L'attenzione che il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi dedica non solo ai bilanci ma anche a quantità, qualità e prezzi dei servizi offerti dalle banche è una garanzia importante. I toni aspri che usa (lo ha fatto all'assemblea dell'Abi nel luglio scorso e ieri alla Giornata del risparmio) sono giustificati proprio dalla "vischiosità" di certi comportamenti un po' troppo «sordi».

A quel punto non avrebbero più scuse neanche quelle imprese timide nel rischiare e che di fronte a prospettive incerte come quelle attuali rinviano gli investimenti e giocano in difesa. È vero che poco si può fare contro la dura realtà dei numeri, ma più di mezzo mondo sta già correndo per recuperare il terreno perduto con la crisi. Ci sono mercati immensi da conquistare con prodotti di qualità che però richiedono ricerca, competenza, passione, fantasia, assistenza e rispetto per il cliente. E quindi investimenti, da finanziare sia con i prestiti delle banche sia con i capitali degli imprenditori che, talvolta, restano parcheggiati in attività poco affini alla vita delle imprese.

Perché anche quei fondi contribuiscano alla produzione di reddito è però necessario che le imprese italiane non soffrano di un handicap permanente di competitività. E qui la palla ritorna al governo che rischia di fermarsi di fronte a un bivio. Da una parte la strada della "tenuta" dei conti pubblici, del compiacimento di aver resistito alla tempesta e di essere stato avvicinato dagli altri paesi nelle classifiche del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Dall'altra la strada della consapevolezza che la crisi non è finita, che l'economia reale ha bisogno di sostegno, che si può iniettare ancora una dose di "stimolo", magari a base di sgravi fiscali.
È una strada più rischiosa perché se è vero che può portare più rapidamente fuori dalla crisi, è anche vero che potrebbe aprire una falla nel bilancio e creare difficoltà al finanziamento del debito pubblico. Ma le strade del rigore e dello sviluppo possono incrociarsi se si fa in modo che, se non subito almeno entro pochi anni, quel deficit "in più" sia riassorbito. Non con promesse scritte sui documenti di finanza pubblica, come troppo spesso è accaduto in passato, ma con leggi di riforma che tengano conto dell'evoluzione demografica della popolazione, delle aspettative di vita, delle diverse esigenze che la solidarietà sociale impone, degli sprechi, degli abusi. E delle compatibilità: non si può concedere tutto a tutti.

Non sono i marziani a insegnarlo. La Germania e la Francia, cioè i concorrenti più vicini all'Italia, stanno attuando politiche fiscali espansive. E sono governate dai conservatori Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. Tremonti dice: non c'è una exit strategy comune in Europa, se ne discute e si discute anche se la leva fiscale funziona oppure no. Una cosa è certa: funziona di più se calata in un ambiente "cooperativo" come quello che ieri ha cominciato a prendere forma.

30 ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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