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Sotto la banca l'etica non campa

di Franco Debenedetti

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Mercoledí 30 Settembre 2009

È insidioso il "muoversi tra etica e banche": al convegno di Cento che si intitola a questo tema, Gianfranco Fini, partito da considerazioni sulla "banca etica", finisce per identificare le cause della crisi con una serie di comportamenti posti in atto dagli operatori (Solo l'etica fa da antidoto agli errori della finanza, Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2009).
L'idea di "banca etica" è in circolazione da tempo. Si caratterizza per la gerarchia dei valori di riferimento: «La persona prima del capitale, il progetto prima del patrimonio, l'equa remunerazione prima della speculazione"» e per l'obbiettivo: finanziare attività di sviluppo sostenibile. Scelta assolutamente legittima, ma che nasconde un'insidia: l'appropriazione indebita del qualificativo "etico" per sè, diventa accusa di "deficit etico" per gli altri.
L'insidia nascosta consente ora alla banca etica di proporsi come modo di fare banking "diverso". Diverso da chi? Diverso dalla storia millenaria di questo mestiere e dal ritratto che ne fanno gli economisti, diverso quindi da quanto ci ha suppostamente trascinato in questa crisi. Così la banca etica esce dall'àmbito limitato in cui era necessariamente confinata, coltiva l'ambizione di promuovere generalizzati comportamenti di correttezza, equità e trasparenza. Pensa di innescare un circuito complesso: che parte dalla selezione del merito di credito, accordato preferenzialmente a clienti che internalizzino anch'essi quella gerarchia di valori e pratichino attività di sviluppo sostenibile; e si trasmette a consumatori che rifiutino di acquistare beni o servizi da operatori economici "non etici", e siano disposti a «spendere un po' di più pur di spendere meglio e contribuire così al soddisfacimento d'importanti bisogni sociali». Una sorta di addizionale Iva: "etica", naturalmente. E se poi non bastasse a chiudere il cerchio, ai correntisti ci pensa lo Stato con la garanzia dei depositi.
Ma alla sorgente della crisi c'è davvero una visione (im)morale, o non piuttosto regole e istituzioni? Fini, presentando la relazione annuale del presidente dell'antitrust al parlamento, aveva assai più persuasivamente affermato essere del tutto insostenibile che «le cause stesse della crisi siano da imputare a una strutturale inidoneità a coniugare la logica del profitto con l'interesse generale a una crescita sostenibile e a una distribuzione non sperequata della ricchezza». I liberisti del sito www.chicago-blog.it avevano commentato: «Fini, sei dei nostri». A Cento invece l'origine della crisi finanziaria è la «pretesa di far da sè, e di dover rispondere solo alle logiche proprie del mercato»; abusi e scorrettezze sono la conseguenza dell'aver teorizzato l'autonomia da criteri morali.
All'antitrust, Fini giudicava «quanto meno singolare» vantare la superiorità dell'intervento pubblico quando all'origine della crisi stanno controlli dei mercati inefficaci e politiche monetarie troppo accomodanti. A Cento promuove l'economia mista come dato strutturale, attraverso il quale «controllare alcune delle dinamiche spontanee del mercato sanzionandone i difetti e le potenziali anomalie ma anche correggendone sistematicamente alcune carenze».
Come spiegare una così marcata differenza? Il fatto è che a Roma il ragionamento si sviluppava all'interno di un sistema teorico-giuridico che, pur in presenza di varietà di indirizzi, ha obbiettivi consolidati e relativamente chiari. A Cento, ci si muove nello spazio concettuale, quello che va sotto il nome di "etica ed economia", vago e con un equivoco di fondo: la differenza tra ethos pubblico ed etica privata. Il mercato, per funzionare, ha bisogno di consenso sociale, e questo si forma anche sulla base di ethos condiviso. L'ethos può essere più restrittivo della lex: ad esempio vanno contro il consenso sociale bonus stratosferici, anche se erogati in base di un contratto valido. Chi non ne tiene conto, rischia di tagliare l'albero su cui è seduto: perché ci sarà qualche politico populista che cercherà di sfruttare lui il richiamo al consenso sociale. Ma l'unica etica civile è quella del rispetto della legge. Poi ogni individuo, o gruppo di individui, è libero di darsi limiti più restrittivi di quelli previsti dalla legge, e di impegnarsi al suo rispetto, sperando di riuscire a modificare col tempo l'ethos collettivo.
La promozione della "finanza etica" è cosa diversa dal ricorso all'"etica nella finanza". La prima è uno strumento comunque destinato a restare nell'ambito locale, che si regge, per sua stessa ammissione, sul contributo dei "consumatori finali" (e sulla garanzia dello stato sui depositi). La seconda ambisce ad avere portata generale, che trova la causa di crisi passate e presenti nei comportamenti degli individui: e se questi non sono sanzionabili a norma di legge, interviene con qualcosa che colmi il presunto vuoto normativo. Il problema, come argomenta Guido Tabellini sul Sole di martedì 22 settembre, è che in tal modo ci si impedisce di individuare le cause e di approntare i rimedi.
«Che cosa economizzano gli economisti?» si chiedeva Dennis Holme Robertson. «Amore», rispondeva. L'economista amico di Keynes voleva significare che per affrontare i problemi della ricchezza e della scarsità non si deve contare su grandi risorse di altruismo sociale. Analogamente, si potrebbe rispondere: «Etica». A significare che per regolare il sistema finanziario, e il modo con cui esso alimenta l'economia, è più facile, ed efficace, cambiare le regole che modificare gli uomini.
www.francodebenedetti.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Mercoledí 30 Settembre 2009
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