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Rischi di una sinistra anti-italiana

di Miguel Gotor

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30 Settembre 2009

Perché la sinistra europea, quella che un tempo chiamavamo socialdemocrazia, continua a perdere contro il centrodestra, pur in tempi di crisi economica che dovrebbero, in teoria, incoraggiarla? Per capirlo, almeno per quanto riguarda l'Italia dobbiamo tornare a qualche giorno fa. Nel corso della presentazione di un libro di Biagio De Giovanni, A destra tutta. Dove si è persa la sinistra? (Marsilio), Massimo D'Alema ha affermato che ci sarebbe «un anti-berlusconismo che sconfina in una sorta di sentimento anti-italiano. Questa concezione di una minoranza illuminata che vive in un paese disgraziato è l'approccio peggiore, subalterno, che possiamo avere. Piuttosto bisogna sforzarsi di capire le ragioni della destra. Una destra nuova, post-liberale, anzi spesso illiberale».
La dichiarazione di D'Alema è stata offuscata da un'imprevedibile combinazione comunicativa in quanto nelle stesse ore Silvio Berlusconi ha sostenuto che l'opposizione era anti-italiana. E così ci si è concentrati più sulla coincidenza di argomenti tra i due leader, peraltro di carattere solo formale, che non sulle parole di D'Alema, che contengono invece un nocciolo duro di verità.
L'esponente del Pd ha segnalato con realismo l'esistenza di un duplice problema dentro l'area dell'opposizione. In primo luogo, la costruzione di un polo alternativo al centro-destra non può continuare a nutrirsi solo di anti-berlusconismo, un propellente utile a compattare un fronte di battaglia a livello identitario, ma insufficiente a vincere la sfida del governo, come le lezioni del passato dovrebbero avere insegnato. In realtà, trasformare Berlusconi in Belzebù non aiuta a capire la portata del fenomeno e le ragioni del suo successo politico, che non possono essere ricondotte tutte dentro la categoria dell'eterna anomalia italiana, anche perché sovente si tratta di difetti strutturali e di lungo periodo che egli ha semmai acuito acconciandosi a essi, ma non provocato. Inoltre, Berlusconi verrà vinto nel paese soltanto quando sarà battuto in una libera competizione elettorale da uno schieramento che non sarà solo unito dal fatto di essere tutto contro di lui, ma in grado di proporre e di affermare un'altra e più convincente idea di Italia, su temi centrali quali lo sviluppo, la modernizzazione, lo sblocco sociale, i diritti e la sicurezza: un progetto da definire prima e comunicare poi con un leader credibile.
In secondo luogo, D'Alema appare preoccupato di difendere il carattere popolare e nazionale del Pd. In effetti, l'immagine che viene propagandata di questo partito da una parte consistente dell'opinione pubblica di destra come di sinistra, è quella di un circolo degli scacchi incapace di sintonizzarsi con lo spirito profondo del paese. Si dice propaganda perché a contraddire questa rappresentazione sovradimensionata dal mondo dell'informazione è il fatto che quel partito alle ultime elezioni politiche ha preso dodici milioni di voti, un dato difficilmente riconducibile all'azione cospirativa di una congrega di radical chic con la puzza sotto il naso, mentre dall'altra parte avremmo l'autentico popolo italiano, in istintivo e perenne fine tuning con il senso comune e l'onda della storia. La caricatura di una caricatura.
Questa dunque sembra essere la seconda urgenza di D'Alema, la necessità di mantenere un rapporto con il tessuto profondo del paese senza arroccarsi in una pretesa superiorità morale e civile necessariamente di minoranza, improntata all'esterofilia, alla sindrome dello straniero in patria, all'idea, per parafrasare il titolo di un libro di Francesco Cossiga, che «italiani sono sempre gli altri». Il problema esiste, sarebbe errato nasconderlo, giacché l'anti-italianità, proprio come il suo esatto contrario, ossia l'arci-italianità, sono attitudini del carattere politico nostrano con radici profonde che risalgono a un disagio della nazionalità di lungo periodo.
Vizi in grado di trasformarsi in maschere che in questi ultimi mesi, a destra come a sinistra, hanno occupato la scena del teatro politico, dando vita a una competizione urlata ma al ribasso in cui, come spiegava Alessandro Campi sul Riformista, gli italiani sarebbero divisi in furbi e fessi, i buoni e i cattivi dell'eterno film western nostrano. Si tratta di una lettura parziale e semplicistica, culturalmente di minoranza, eppure oggi appare come il canto dominante perché è nei momenti di crisi in cui riaffiorano i tic antichi e difensivi, quelli che servono a puntellare la propria inadeguatezza. Non a caso, in una situazione di appannamento della sua leadership, il nostro presidente del consiglio ha tirato fuori dal proprio cilindro comunicativo un argomento tipico della cultura populista di ogni tempo e latitudine, cioé l'idea che l'opposizione sia anti-nazionale, dimentico che a puntellare la sua maggioranza è proprio la Lega, partito dalla retorica anti-italiana per eccellenza.
Si ha purtroppo la sensazione che i treni degli arci e degli anti-italiani siano ormai lanciati a rotta di collo e si ha la certezza che a fine corsa non ci saranno vincitori né vinti, ma solo macerie. A pagare, ancora una volta, saranno gli italiani che non sono furbi né fessi, fannulloni o corrotti, la maggioranza che fa il proprio dovere ogni giorno in condizioni spesso difficili e che meriterebbe una proposta politica all'altezza delle sue speranze, più forte della disillusione e del disincanto. Anche per questo la sinistra perde, e farebbe bene a riflettere.

30 Settembre 2009
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