«...
PAGINA PRECEDENTE
Che insegnamenti possono fornire questi precedenti storici che abbiamo sommariamente descritto per la potenza numero uno dei giorni nostri? Non granché. Può darsi che la battaglia per il controllo dell'Afghanistan sia effettivamente importantissima, come, per fare qualche esempio, Stalingrado, Guadalcanal o El Alamein; che si debba vincere questa battaglia per neutralizzare i riferimenti storici alla mancata penetrazione (in profondità) dei romani in Scozia. Può darsi, come sostengono i neocon americani e diversi opinionisti di tendenze più moderate, che la natura stessa dell'odierna minaccia terroristica, violenta, asimmetrica, transnazionale, sia tale da rendere doveroso andare a sradicarla ovunque per il mondo. Le frontiere romane lungo il Reno e lungo il Danubio, o il Vallo di Adriano, non sono sufficienti. Non al giorno d'oggi, quando i terroristi possono arrivare fino a noi. Dobbiamo andare fino da loro. «Niente tentennamenti», come diceva Margaret Thatcher.
Anche se accettiamo il concetto che la lotta al terrorismo è una questione transnazionale, è ragionevole rimanere scettici rispetto all'idea di andare a combattere in un terreno dove l'Occidente perde gran parte dei suoi vantaggi militari e tecnologici. Guardando le foto dei terreni dirupati a ovest di Herat, o leggendo i resoconti delle tante incursioni in Afghanistan da parte di eserciti stranieri nel corso della storia, è evidente che ostacoli fisici come giungle, paludi e montagne scoscese mettono i combattenti su un piano di parità. La mia impressione (di uno che guarda da fuori, lo ammetto) è che i combattimenti in montagna nei mesi invernali trasformeranno questa guerra in un conflitto soldato contro soldato. Quando gli elicotteri non possono volare per le tormente e gli Humvee rimangono bloccati in cumuli di neve alta tre metri, le differenze si attenuano. Le truppe americane, britanniche e degli altri Paesi della coalizione lo sanno fin troppo bene. Non è una questione di morale della truppa, è una questione di senso pratico, di combattere un nemico sfuggente che sceglie quando resistere e combattere e quando scivolare via. Un ufficiale di basso grado dei marines recentemente mi ha raccontato l'ultima, sferzante battuta che circola in Afghanistan: «Gli americani hanno gli orologi, ma noi abbiamo il tempo». È un pensiero che fa rabbrividire.
Ora che il mondo e l'amministrazione Obama si apprestano a entrare nel 2010, non è assurdo o allarmista esprimere preoccupazione per l'incurabilità della piaga afghana.
In altri campi, alcuni dei nostri indicatori globali fanno un po' meno paura di quanta ne facevano un anno fa. L'economia internazionale ha arrestato la sua caduta precipitosa, e in alcune parti del mondo sta mostrando incoraggianti segnali di ripresa. L'accordo sul clima di Copenaghen è stato un mezzo fiasco, ma ha spinto i Governi mondiali un passettino più avanti nella giusta direzione. Il sistema bancario è stato salvato, anche se a un prezzo pesante per i contribuenti. Nell'America Latina, Hugo Chávez continua con i suoi gesti antiamericani, ma appaiono sempre più futili. L'Asia orientale sembra relativamente stabile (anche se forse è meglio non dirlo ad alta voce). Dunque ci sono fondate ragioni perché gli Stati Uniti, in questo momento, dedichino forte attenzione alla complicata quadriglia composta da Iraq, Iran, Afghanistan e Pakistan.
Ma il seccante interrogativo permane: andare a combattere in alta quota e in mezzo alla neve, sui passi innevati del Pashtunistan, è una strategia fattibile? Oppure l'amministrazione Obama si ritroverà, come moltissimi altri Governi nel corso della storia, a cercare di ottenere una vittoria irraggiungibile (o quantomeno, non riconoscibile come vittoria)? I talentuosi autori dei discorsi del presidente stanno già pensando ai testi alternativi che dovranno essere pronti per le elezioni di metà mandato del prossimo novembre, quando le nevi sommergeranno i passi di montagna del remoto Hindu Kush? Se non lo stanno facendo, farebbero bene a farlo.