Nel 1995, in quella che sembra oggi la preistoria della finanza internazionale, Rudi Bogni, che era allora alla guida della Swiss Bank Corporation (poi fusa con Ubs) a Londra, lasciò improvvisamente la poltrona per andare a studiare matematica avanzata all'Imperial College. Semplicemente, sosteneva Bogni (che poi è tornato alla finanza ed è anche collaboratore del Sole 24 Ore), non era più possibile dirigere una grande banca d'investimento senza capire come funzionassero i derivati. A meno di esporsi a rischi eccessivi senza neppure essere in grado di valutarne la portata.
Da allora, il mondo dei derivati è esploso, in tutti i sensi, e con esso sono saltati in aria anche alcuni dei più bei nomi dell'investment banking mondiale. Troppa incomprensibile matematica nella finanza, afferma qualcuno. Un giornalista del Wall Street Journal, Scott Patterson, ha appena scritto un libro su come i "quants", gli adepti delle tecniche quantitative, «hanno conquistato Wall Street e l'hanno quasi distrutta». Nella politica, tira aria di voler mettere al bando del tutto alcuni prodotti derivati.
Gli eccessi della sofisticazione finanziaria sono sotto gli occhi di tutti. Ma forse qualcuno sta cominciando a chiedersi se l'introduzione di nuove regole per i derivati e per la finanza in genere non debba accompagnarsi a un po' di sana educazione finanziaria anche per i consiglieri d'amministrazione delle banche. Per esempio, il Comitato di Basilea, che riunisce le autorità di vigilanza dei paesi più importanti, ha pubblicato questo mese una raccomandazione importante «sulla base delle lezioni della crisi», che i cda delle banche abbiano un ruolo di primo piano nell'approvare e tenere costantemente sotto controllo la strategia sul rischio. E i consiglieri devono essere attrezzati con una conoscenza adeguata di tutte le attività della banche, soprattutto quelle più rischiose.
Cosa emerge invece dall'esame dei cda di 20 delle più grandi banche internazionali appena compiuto da Moody's? Non solo i consigli sono pletorici e quindi presumibilmente meno efficaci. Ma il punto cruciale è l'inesperienza finanziaria dei consiglieri non esecutivi (quelli che più di ogni altro dovrebbero esercitare un controllo sul management). C'è stato, dopo la crisi, un miglioramento: in media, i consiglieri non esecutivi con esperienza di finanza sono passati da meno di un terzo nel luglio 2007 a poco meno della metà oggi. In cinque banche su 20, però, solo un consigliere non esecutivo su cinque ha la competenza necessaria per mettere in atto le raccomandazioni di Basilea, e quindi svolgere il proprio ruolo in modo da garantire una governance equilibrata delle banca. Come fanno gli altri a porre le domande giuste e discutere la strategia e la gestione del rischio decisa (a volte improvvidamente, come ha mostrato la crisi) dai vertici operativi?