È trascorso quasi un anno dai giorni più difficili e drammatici della grande crisi dell'auto americana, quelli che hanno cambiato l'assetto mondiale dell'automotive. Un lasso di tempo sufficiente a misurare la portata e le implicazioni degli eventi che hanno recato la minaccia più acuta alla continuità di Detroit, di cui è oggi possibile ricostruire i passaggi e i momenti cruciali. È quanto ha fatto uno dei più noti analisti del sistema americano dell'auto, il giornalista Paul Ingrassia, vincitore di un premio Pulitzer, per venticinque anni firma di spicco del Wall Street Journal. Col suo recentissimo Crash Course - The American Automobile Industry's Road from Glory to Disaster (Random House, pagg. 306) Ingrassia affronta un duplice compito: da un lato, ripercorre le ragioni di lungo periodo che hanno condotto al declino del sistema di Detroit e, dall'altro, offre il primo racconto analitico delle operazioni che hanno portato al salvataggio di General Motors e Chrysler.
Il collasso di due delle "big three Usa" è maturato durante un lungo accumulo di condizioni negative, per poi precipitare nel volgere di pochi mesi, fino all'epilogo scatenato dalla caduta a picco delle vendite di auto dopo il fallimento di Lehman Brothers. Secondo Ingrassia, l'ordine di Detroit era minato dall'interno e la crisi globale ha avuto l'effetto di fungere da detonatore, facendo esplodere contraddizioni che non erano più gestibili.
La hubris dei colossi
Il fatto è che probabilmente, ad onta dei loro pessimi risultati economici, General Motors, Ford e Chrysler concepivano se stesse come delle realtà economiche intramontabili. Lo si vide nell'autunno del 2008, quando i loro tre amministratori delegati andarono a Washington a bordo di un jet privato per chiedere al governo e al senato di correre in loro soccorso. Fu quello il segno che il mondo di Detroit non era più in sintonia col clima ormai imperante in tutta la nazione. Le grandi case automobilistiche erano convinte che non solo non sarebbero state lasciate soccombere, ma che avrebbero potuto difendere e conservare i loro assetti gestionali. Un errore di prospettiva che condividevano col sindacato dell'automobile, la Uaw, intenzionata a salvaguardare fino in fondo le prerogative conquistate in sessant'anni di contrattazione.
Un settore ripiegato su se stesso
Il difetto peggiore agli occhi degli americani era che il sistema dell'auto appariva sempre più come un universo autoreferenziale, in cui il management era attaccato con le unghie e coi denti al proprio potere e ai propri privilegi così come il sindacato continuava a credere di poter tenere in piedi strumenti quali la Job Banks (la banca del lavoro), grazie a cui i lavoratori sospesi temporaneamente dall'attività produttiva potevano percepire il 95% del salario.
Nell'autunno del 2008, divenne chiaro di colpo che tutto questo era finito, sepolto sotto i guasti di una cattiva gestione industriale sopravvissuta soltanto in virtù di alcune congiunture speciali e fortunate, come l'ascesa sul mercato americano dei Suv, che negli anni Novanta aveva temporaneamente bloccato l'espansione dei produttori giapponesi.
L'azione di Obama
Le istituzioni americane diedero però prova in quel frangente di una capacità di reazione immediata. Dopo che l'amministrazione Bush aveva erogato gli aiuti necessari per impedire che Gm e Chrysler si bloccassero, il governo di Obama appena insediato mise in piedi in poche settimane la task force dell'auto che sviluppò le strategie di salvataggio. L'azione si rivelò efficace perché i componenti della task force non venivano dal settore dell'auto e poterono guardare ai problemi di Detroit con un occhio non condizionato dal passato.
Fu così che in quarantadue giorni prese corpo il disegno dell'alleanza tra Fiat e Chrysler, una soluzione complessa che all'inizio non era affatto scontata. Per accettarla, non bastava il fatto che quella della Fiat fosse l'unica offerta in campo per la Chrysler. C'era chi pensava, per esempio, che sarebbe stato meglio fondere la Chrysler con la Gm oppure, semplicemente, lasciarla perire, in modo che Ford e Gm potessero avvantaggiarsene sul mercato.
Il racconto di Ingrassia consente di cogliere l'incrocio degli elementi che sfociò nell'intesa finale: la credibilità di Sergio Marchionne come manager; il ruolo determinante entro la task force di Ron Bloom, persuaso che si dovesse giocare la carta della Fiat; il debito di Obama verso il sindacato dell'automobile, che aveva profuso risorse finanziarie e mobilitato i suoi attivisti durante la campagna elettorale dei democratici. Una concatenazione di fattori in ultima analisi decisiva per spingere Obama ad appoggiare l'accordo con la Fiat, con un discorso alla nazione in cui abilmente una disfatta economica veniva trasformata nella speranza di un riscatto industriale.
Tutto questo è servito ad assicurare a Detroit la possibilità di una ripartenza, forse di un nuovo inizio. A patto, tuttavia, di chiudere per sempre con la storia passata.