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COMMENTI / I modelli della «231» meritano più attenzioni

di Paolo Ielo

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31 marzo 2010

Il tema della responsabilità degli enti da reato, introdotta dal legislatore nel giugno del 2001, si colloca in un terreno delicatissimo di confluenza tra etica, diritto, scienze aziendali ed economia. Il decreto legislativo 231/01, nell'adeguare - sia pure con ritardo - la legislazione italiana agli standard normativi dei più evoluti ordinamenti occidentali, delinea un sistema che tende per un verso a sanzionare fatti illeciti che intervengano nella vita dell'impresa, per altro verso a premiare organizzazioni virtuose. Un risultato che si ottiene escludendo la punibilità ove, prima del reato, siano stati attuati moduli idonei a evitare la sua commissione ovvero attenuando la sanzione quando, dopo il reato, siano adottati adeguati modelli organizzativi.

L'intervento giudiziario, in tale settore, deve guardarsi dagli opposti rischi dell'omesso intervento e del cattivo intervento: entrambi incidono negativamente sui fattori che consentono il corretto svolgersi di un'economia di mercato, favorendo le imprese che non pagano il costo della legalità a danno di quelle che si accollano il peso economico, non di rado significativo, per adeguare le loro strutture organizzative a criteri di seria prevenzione dei reati.

In concreto, in tema di 231, postulare l'equazione commissione del reato uguale a inidoneità del modello organizzativo è altrettanto dannoso che omettere l'applicazione dell'istituto, oltre che in aperto contrasto con la legge. E si traduce in una singolare eterogenesi dei fini per cui un intervento legislativo che tende a promuovere moduli organizzativi orientati alla prevenzione dei reati determina il suo opposto:la non convenienza della loro adozione, poiché costosi e, in ultima analisi, inutili ai fini dell'esonero da responsabilità.

L'esperienza giudiziaria di quasi due lustri, quanto al problema della valutazione dei modelli organizzativi, può dividersi in due fasi. In un primo periodo, che come linea di tendenza può ritenersi definito, gli enti raggiunti da accuse di responsabilità non erano dotati di compliance programs.

In questo primo periodo, quasi mai si è posto all'attenzione dei magistrati, inquirenti e giudicanti, il problema della loro idoneità, se non in fase di quantificazione della sanzione, nel caso di loro adozione in tempo successivo al reato. In un secondo periodo, le imprese coinvolte hanno prodotto modelli organizzativi ex 231. I provvedimenti giudiziari, quasi esclusivamente pronunciati nella fase di merito, hanno prevalentemente ritenuto l'inidoneità dei modelli organizzativi proposti, anche se prende corpo una linea di tendenza, probabilmente legata a una sempre maggiore tenuta dei modelli proposti, a valorizzarne la funzione in termini di esclusione della responsabilità.

In tale contesto, il momento di maggiore criticità si osserva nella fase cautelare: altro è valutare la posizione di un ente privo di modelli organizzativi, altro è verificare l'idoneità in concreto di un compliance program che non sia mera forma. Un'analisi che sarebbe opportuno intervenisse da parte dell'organo inquirente già prima della richiesta cautelare, quantomeno ai fini della verifica delle ragioni cautelari.

Sul piano dell'organizzazione giudiziaria, le leggi vigenti non prevedono per gli uffici inquirenti moduli organizzativi specifici per questa materia, per esempio sul modello delle direzioni distrettuali antimafia, sicché è rimesso alla responsabilità professionale e istituzionale dei procuratori della repubblica organizzare gli uffici che dirigono in modo tale da valorizzare e privilegiare le professionalità esistenti in materia, al fine di evitare prassi giudiziarie distorte e dannose per il sistema.

31 marzo 2010
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