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DA QUI AL 2013 / Tre anni per ritrovare le parole

di Guido Gentili

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Per un'Italia abituata a campagne elettorali logoranti e permanenti, la prospettiva di una tregua pressoché totale fino al 2013 rappresenta una formidabile opportunità di crescita. In tutti i sensi, dalla politica all'economia, passando in particolare per l'attuazione del federalismo, che traina l'irrinunciabile riforma fiscale.

Dopo il responso corroborante delle regionali, il governo Berlusconi (all'interno del quale si rafforza con tutta evidenza la Lega di Umberto Bossi) può riprendere il cammino riformista interrotto. Per colpe sue e non sue: inutile oggi attardarsi sull'attribuzione delle responsabilità. Per fortuna è un fatto che la pessima campagna cui abbiamo assistito è alle nostre spalle.

Naturalmente, si tratta di capire come verrà colta, in concreto, questa opportunità di crescita, di cui il paese ha un bisogno estremo. Più di 6 punti di prodotto interno lordo (Pil) persi nel biennio della Grande Crisi 2008-2009 e 15 punti di minore sviluppo, rispetto alla media Ue, evaporati nel quindicennio tra il 1992 e il 2007 testimoniano un affanno di fondo del nostro sistema economico. Le analisi internazionali più autorevoli (ultima, quella dell'Fmi, condivisa dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti) da un lato mettono l'accento sul «modo appropriato» con cui la crisi sociale è stata fronteggiata, evitando arrembanti e illusorie politiche di stimolo fiscale e mettendo in sicurezza i conti pubblici. Dall'altro, avvertono che è necessario ora contenere il disavanzo pubblico e ridurre il peso del debito pubblico. Insomma, l'Italia deve attuare le famose «riforme strutturali» (sanità, pensioni e fisco, ma anche pubblica amministrazione e giustizia) capaci di alzare la produttività generale di un sistema poco efficiente che non può contare solo sulla ripresa della domanda internazionale.

Sull'«impulso riformatore», condiviso tra maggioranza e opposizione, insiste anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Silvio Berlusconi rilancia il progetto del cambiamento e inserisce, nel quadro della sua strategia "decisionista", il progetto del presidenzialismo, formula che però non sarà condivisa dall'opposizione: se vorrà insistere su questo tasto dovrà fare come il presidente Obama negli Usa per la riforma sanitaria, giocando in prima persona il tutto per tutto. Il leader del Pd Pierluigi Bersani è disponibile a intraprendere un «cammino di svolta» per la soluzione dei problemi immediati degli italiani. Al momento, il riformismo possibile va dunque ricercato entro i confini, pure molto ampi, del federalismo fiscale (la legge delega è stata approvata col concorso attivo dell'opposizione) e della riscrittura del "patto" tributario con cittadini e imprese.

In ogni caso, la partita è decisiva e sarebbe un errore leggerla come l'imposizione della Lega, che per prima ne ha intuito le potenzialità innovative e che della riforma federalista dello stato (e del fisco) ha fatto una bandiera. La «madre di tutte le riforme», come dice Tremonti, è oggettivamente questa. Ed è su questo terreno che la stessa maggioranza dovrà giocare le sue carte fino alle elezioni politiche del 2013.

Per ora, quello che abbiamo sotto gli occhi è un federalismo incompiuto e pasticcione. Dopo le (utili) riforme amministrative di Bassanini di fine anni Novanta e la riforma costituzionale del 2001 che ha decentrato molte competenze legislative, è rimasto infatti in piedi il modello di «finanza derivata». Accade così che, mentre la spesa pubblica (esclusi interessi e pensioni) si divide a metà tra lo stato e il settore regioni ed enti locali, quest'ultimo comparto dispone di una responsabilità impositiva inferiore al 20 per cento. Una dissociazione tra spesa e responsabilità impositiva che fa esplodere i conti pubblici, alimenta la moltiplicazione delle strutture in sovrapposizione di competenze, crea organismi inutili. Il tutto in un intreccio fitto e litigioso tra poteri concorrenti, in eterna lotta in tutti i tribunali e di fronte alla Corte Costituzionale.

Il nuovo federalismo fiscale, assieme all'individuazione precisa delle funzioni fondamentali degli enti locali, dovrebbe chiudere questa pagina, con la fine della "finanza derivata" e il taglio del ripiano statale a piè di lista. Il principio della responsabilità dovrebbe affermarsi, e con esso quello del "fallimento" politico degli amministratori incapaci. Le tasse pagate dai contribuenti diveranno più trasparenti perché si potrà sapere per quali motivi e quali spese regioni ed enti locali chiedono le imposte. Più che una riforma, a ben vedere, una rivoluzione: a maggior ragione se si considera che è prevista diminuire la pressione fiscale complessiva.

Oggi, la pressione fiscale italiana, cioè il rapporto tra le tasse incassate e la ricchezza prodotta dal paese, galleggia attorno a quota 43 per cento. Tanto, tantissimo per tutti cittadini. E per le imprese, in particolare le medie e le piccole, punto di forza del sistema, già bersagliate da una burocrazia inefficiente che ne frena lo sviluppo. Ma se è inutile pensare a miracoli estemporanei, a tagli drastici tali da far saltare la messa in sicurezza dei conti pubblici, è necessario chiedere alle forze politiche, e in prima battuta al governo e alla maggioranza che lo sostiene, un impegno deciso per la riforma fiscale, che viaggia assieme a quella federalista, e che assieme sono i capisaldi del programma dell'esecutivo.

  CONTINUA ...»

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