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LA MANO VISIBILE /Alla «231» non serve il commissario

di Alessandro De Nicola

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4 aprile 2010

Per il momento, dunque, la vicenda Fastweb e Telecom Italia Sparkle non ha prodotto l'esito più clamoroso, vale a dire la nomina di un commissario giudiziale per la gestione delle due società in attesa di giudizio.
È ovvio, però, che sia suonato un campanello d'allarme sulle potenzialità del dlgs 231 del 2001, il quale prevede la responsabilità delle imprese per reati commessi nel loro interesse o vantaggio da propri dipendenti o amministratori. Unico modo per salvarsi, l'adozione di un modello d'organizzazione, gestione e controllo ben funzionante il cui rispetto sia supervisionato da un organismo di vigilanza. La società dovrà inoltre provare che il reato è stato commesso aggirando fraudolentemente il modello.

La norma dovrebbe tendere a un risultato efficiente, vale a dire una situazione in cui il benessere complessivo risulti maggiore dalla sua applicazione. Ecco perché si decide, ad esempio, di riversare pure sulle imprese la responsabilità di chi perpetra un delitto. Poiché il soggetto meglio in grado di controllare che la conduzione degli affari sia onesta è chi ha l'interesse economico a un'eventuale violazione della legge nonché l'organizzazione di mezzi e la conoscenza del business sufficienti per impedire l'illecito, vale a dire l'impresa, ne deriva che è economicamente efficiente emanare misure deterrenti (le sanzioni) affinché essa tenga una condotta corretta.

Peraltro le sanzioni non devono essere applicate in modo tale da annullare gli incentivi all'onestà. Se qualsiasi misura di prevenzione dell'impresa venisse considerata insufficiente sol perché viene commesso un delitto, chi si affannerebbe a fare un modello? E se la sanzione distrugge ricchezza, che guadagno ne ha il sistema economico? Se una società vale 100 e il commissariamento porta il suo valore a 50, non basta che sia il concorrente a guadagnare 50 (il che comunque non succede).


Se non ci aveva già pensato il mercato a trasferire il valore, vuol dire che la misura interdittiva ha generato un'allocazione inefficiente di risorse. Ciò a non contare il costo sociale di minore occupazione e indebolimento della concorrenza che il blocco di un'attività d'impresa portano con sé. Se poi la sanzione viene comminata in fase cautelare, quando per definizione le responsabilità non sono definitivamente attribuite, il danno potenziale è evidente.

Da qui l'opportunità di modificare l'attuale impianto della 231. In primis, eliminando la possibilità d'infliggere in fase cautelare misure interdittive afflittive come il commissariamento o il ritiro di autorizzazioni e licenze o la proibizione a operare. Questo è già vero per banche, assicurazioni e sgr: perché non estendere il meccanismo almeno alle società quotate che hanno per legge meccanismi di controllo interno ed esterno pervasivi? In cambio si potrebbe chiedere che le società nominino l'organismo di vigilanza con procedura simile a quella del collegio sindacale (assemblea e presidente scelto dalle minoranze) in modo da rafforzarne il ruolo di garanzia.


Inoltre, come accade per i modelli in tema di sicurezza adottati secondo procedure Uni-Inail, i modelli approvati e gestiti secondo certi parametri dovrebbero presumersi efficaci salvo prova contraria. La corruzione e l'illegalità scoraggiano gli investimenti, non c'è dubbio. Ma la cura contro il malaffare non è l'incertezza del diritto: in genere i malviventi ci sguazzano dentro felici.

4 aprile 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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