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Per le utility è l'ora del divorzio (dagli enti locali)

di Lorenzo Stanca

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4 dicembre 2009

Le ex-municipalizzate devono sciogliersi dai legami troppo stretti con gli enti locali. Parliamo di A2A, Hera, Atm, Iride, Agegas-Aps, Acea e centinaia di altre aziende in ogni angolo della penisola. Ma sono davvero ex? Si tratta davvero di imprese che si confrontano con il mercato? L'impressione è che restino aziende votate alla gestione di monopoli "travestite" da società di diritto privato aperte alla competizione.
Che le cose stiano così lo s'intuisce subito, se si osserva la presenza delle aziende italiane nella gestione di servizi urbani a livello internazionale. Le nostre aziende sono scarsamente presenti, con una quota di mercato tendente allo zero.
Eppure il potenziale per fare affari, anche molto interessanti, ci sarebbe. Negli ultimi dieci anni il mercato internazionale dei servizi urbani è cresciuto in misura significativa. Per limitarsi al contesto europeo, nel 2007 il mercato delle utility (limitato ai soli comparti di energia elettrica, gas, acqua e gestione dei rifiuti) valeva 729 miliardi, con un incremento del 20,7% dal 2006, e con un tasso di crescita medio a due cifre almeno dal 2003. La costante espansione si registra in ragione dei crescenti investimenti che in ogni parte del mondo si realizzano per migliorare efficienza ed eco-sostenibilità dei servizi pubblici locali e della sempre maggiore apertura ad affidare a operatori internazionali la gestione delle infrastrutture.
Oggi accade che, in questo mercato, sono le aziende francesi, tedesche, spagnole, statunitensi a sfidarsi per aggiudicarsi i contratti più remunerativi.
E gli italiani? Il tasso d'internazionalizzazione delle local utility italiane, purtroppo, è molto limitato rispetto all'effettivo potenziale. Da noi, l'unico vettore di crescita è rappresentato dalle acquisizioni, peraltro negoziate più in base a logiche politiche che economiche. Per contro, l'acquisizione di contratti all'estero viene percepita come una defocalizzazione.
Ma non si tratta solo di rinunciare a opportunità d'espansione. Se non si attacca, si finirà con l'essere attaccati. E la sfida internazionale potrebbe non essere facile da fronteggiare. Anche all'interno dello stesso, appetibile, mercato italiano.
Che il tema esista, lo dimostrano sia la recente iniziativa che il governo ha intrapreso sul settore, sia il grande clamore che questo ha suscitato. L'articolo 15 del decreto-legge n. 135 del 25/9/09, noto come "Decreto Ronchi", conduce ad una corposa "privatizzazione" del comparto dei servizi pubblici locali. Va comunque rilevato che una maggiore presenza di privati comporterà inevitabilmente un aumento delle logiche di mercato. La perplessità, tuttavia, attiene allo strumento. Più mercato non s'impone per legge, ma tramite una politica industriale di sostegno allo smantellamento dei monopoli.
Occorre, dunque, raccogliere la sfida. Ma per farlo, è prima necessario uscire da un equivoco di fondo. Le nostre utility urbane sono a tutti gli effetti società profit oriented? O, piuttosto, la loro funzione è indissolubilmente legata alla soddisfazione del principale stakeholder, ovvero l'amministrazione locale? E che dire, poi, delle fusioni? Di operazioni significative, anche su questo terreno, ne sono state compiute molte. Di minicolossi dei servizi urbani nell'energia, nei trasporti, nella gestione dei rifiuti, se ne contano diversi.
Il dato positivo è che tale processo di crescita dimensionale ha creato la massa critica industriale per essere competitivi sui mercati internazionali. Il futuro delle utility italiane sta allora, molto probabilmente, nella rescissione dei legami troppo stretti con le autorità locali. Una scelta forte, ma efficace e indispensabile, per rendere davvero "ex" le nostre municipalizzate.
Lorenzo Stanca è presidente del Gruppo economisti d'impresa

4 dicembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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