L'Eurogruppo e il Fondo monetario internazionale hanno prescritto alla Grecia un taglio immediato dei salari pubblici del 15-20%, un blocco di assunzioni e di aumenti salariali in quel settore per almeno tre anni, un aumento dell'età pensionabile a circa 65 anni (dagli attuali circa 55) per tutti, con tagli alle pensioni stesse, aumenti dell'Iva ma non delle imposte sui redditi per non scoraggiare il lavoro, una tassa una tantum sulle imprese, una liberalizzazione di circa 60 professioni chiuse e settori protetti dalla concorrenza, privatizzazioni e vendite di proprietà pubbliche, liberalizzazioni del mercato del lavoro. Recuperare l'evasione fiscale (enorme) richiederà riforme del sistema politico che ne riducano la corruzione.

Si sente dire che la colpa è degli speculatori ma in realtà è l'esatto contrario: il fatto che la Grecia abbia potuto indebitarsi a tassi simili a quelli tedeschi per anni e anni, protetta dall'appartenenza all'area euro, ha contribuito a questa crisi. Se i mercati si fossero svegliati prima nei confronti del rischio Grecia e se Eurostat avesse scoperto il buco dei suoi conti sarebbe stato meglio per tutti.

Queste politiche di contenimento della spesa per salari pubblici e pensioni, sulle privatizzazioni, liberalizzazioni e riforme del mercato del lavoro sono esattamente la ricetta che da anni viene ripetuta anche per l'Italia e altri paesi europei, soprattutto mediterranei. Sia chiaro: l'Italia non è la Grecia. La sua struttura economica è molto più solida e diversificata e i suoi conti sono in condizioni migliori e una buona parte del nostro debito è domestico. La Grecia era ben più indietro di noi nel riformare le pensioni e ha un impiego pubblico ancora più ridondante del nostro. Ma noi abbiamo comunque un debito di quasi il 120% del Pil, e una crescita di non più dell'1% per i prossimi due anni, che non è sufficiente da sola a ridurre il rapporto debito/Pil con un deficit di circa il 5% del Pil.

Va dato atto che il ministro dell'Economia ha avuto un merito non da poco, cioè aver evitato che la grande recessione da cui stiamo uscendo si trasformasse in una crisi fiscale.

Si è opposto con decisione al solito attacco alla diligenza sulla spesa pubblica, compreso quello di altri ministri, un attacco reso più virulento dalla crisi stessa. Ma cantare vittoria non basta più. Con un debito come il nostro e una crescita asfittica, anche piccoli aumenti dei tassi sono molto gravosi e sarà impossibile ridurre le imposte se il peso degli interessi sul debito aumenta.
Non basta più proclamare che in Italia tutto va bene, che il nostro sistema di welfare non va cambiato, che la spesa pubblica non si può ridurre, che il mercato del lavoro va bene così com'è, che non è necessario che la partecipazione alla forza lavoro aumenti e si lavori di più e meglio per aumentare la produttività. È servito per dare fiducia nei momenti più bui della crisi, ma ora i mercati non si fidano più ciecamente di qualunque paese dell'area euro, e forse non si fidano più tanto nemmeno della Gran Bretagna. Se la Spagna non adotta e presto delle riforme come quelle greche, rischia di vedersi alzare gli spread e trascinare l'Europa in una crisi ben peggiore che coinvolgerebbe anche l'Italia. Qualche giorno fa abbiamo visto segnali di aumento degli spread sul nostro debito, anche se poi si sono abbassati: un piccolo segnale da non trascurare.
È cruciale che l'Italia si avvii in modo graduale nella direzione che l'Fmi ha indicato per la Grecia. Non ci serve certo una dose da cavallo stile greco, ma bisogna dare un segnale ai mercati che abbiamo capito la gravità della situazione di debito pubblico e crescita e ci stiamo muovendo. A questo punto ripetere agli italiani che tutto va bene diventa controproducente, perché rende poi difficile far accettare riforme che, anche se "impopolari" nel breve periodo, evitano però guai ben peggiori dopo, e la Grecia ne è un esempio.

Uno dei pochi aspetti positivi di questa crisi greca potrebbe essere proprio quello di svegliare l'opinione pubblica verso i rischi fiscali che i paesi molto indebitati come il nostro corrono. L'Europa mediterranea non può continuare a invecchiare, crescere e lavorare poco, e affidarsi alla spesa pubblica e al debito pubblico per sopravvivere.

 

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