Claude Lévi-Strauss, come ogni intellettuale che si rispetti, sapeva essere irritante. Nel 1971, sorprese l'uditorio con una tesi inaspettata per un antropologo. L'etnocentrismo, disse, non è una cattiva cosa, ed è stupido attaccarlo. È naturale porre il proprio modo di vivere e pensare al di sopra di un'altra cultura o civiltà che si discosta troppo dai valori e dalle usanze cui siamo abituati. Una certa impermeabilità è inevitabile. E persino auspicabile, perché solo chiudendosi agli altri si possono preservare sistemi di valori come entità distinte, capaci di rinnovarsi all'interno. Semmai dovremmo preoccuparci della graduale scomparsa dell'etnocentrismo - e non solo, e non tanto, di quello di noi occidentali. Le culture, anche le più lontane e "primitive", sono destinate a comunicare sempre di più tra loro, spingendosi troppo in là nel riconoscimento delle diversità rispetto ai tempi in cui, all'opposto, ognuna di esse considerava se stessa l'«unica vera», l'«unica umana», e guardava agli abitanti appena di là dal fiume come a «scimmie di terra» o «uova di pidocchio».
Niente male per un discorso tenuto all'Unesco. E per un intellettuale famoso per l'avversione a ogni forma di razzismo, con il quale, a suo avviso, l'etnocentrismo non va confuso. Nessuno è autorizzato a opprimere o respingere valori degli altri. Del resto - come aveva osservato nel 1952 - la regolarità con cui le grandi religioni da sempre insistono sul tema della comune appartenenza a una stessa umanità, e le ricorrenti dichiarazioni dei diritti, denunciano l'insuperabile difficoltà dell'uomo ad avvicinare il diverso, a identificarsi con l'umanità in generale.
Questo, con sue specificità, è il tema che Lévi-Strauss, morto a Parigi nella notte tra sabato e domenica, ha declinato in mille modi. Nato nel 1908 a Bruxelles, da famiglia francese, si laureò in filosofia nel 1934 e lasciò la Francia per insegnare sociologia a São Paulo. In Brasile approfondì lo studio delle popolazioni indigene. Negli anni Quaranta a New York, entra in contatto con l'antropologia culturale statunitense e con il linguista russo Roman Jakobson, fondatore insieme a lui dello strutturalismo.
Nel 1947 torna a Parigi, prima al Musée de l'homme, poi all'École des hautes études e al Collège de France. Tra le sue opere (pubblicate per lo più dal Saggiatore) ricordiamo Le strutture elementari della parentela, Tristi tropici, Il crudo e il cotto, Le origini delle buone maniere a tavola, L'uomo nudo, Guardare ascoltare leggere, Antropologia strutturale, Mito e significato, Il pensiero selvaggio, Saudades do Brasil.
Al Collège de France, nel 1998, propose un'immagine della vecchiaia originale e profonda: «In questa età avanzata che non pensavo di raggiungere, mi sento come un ologramma spezzato. Non possiede più la propria unità eppure... ogni parte rimasta conserva un'immagine e una rappresentazione del tutto. Allo stesso modo, per me c'è oggi un io reale che è soltanto il quarto o la metà di un uomo, e un io virtuale che conserva ancora un'idea viva del tutto. L'io virtuale progetta un libro, comincia a organizzarne i capitoli e dice all'io reale: "Tocca a te proseguire." E l'io reale, che non può più farlo, dice all'io virtuale: "Affari tuoi". La mia vita si volge ora in questo stranissimo dialogo... Lo so, il mio io reale continua a sciogliersi fino alla dissoluzione estrema, ma vi sono riconoscente di avermi teso la mano, e per un attimo di avermi fatto sentire che non è così».
L'anno scorso, però, all'età di cent'anni (il prossimo 28 novembre sarebbero stati 101) pareva averci ripensato: «La douceur de vivre consiste innanzitutto nel non morire». Anche se il mondo in un secolo, era del tutto cambiato: «Siamo in un mondo al quale non appartengo più - diceva nel 2005 - quello che ho conosciuto e che ho amato aveva 1,5 miliardi di abitanti. Quello attuale ne conta sei miliardi, non è più il mio».