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La crisi? Scuole di pensiero parlatevi

di Edmund Phelps

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4 novembre 2009

Nelle guerre fra teorie, che sono anche guerre sulle scelte politiche, due teorie cattive cacciano le teorie buone. L'economia keynesiana, finita nel dimenticatoio in campo macroeconomico, ha trovato adepti dall'esterno. Questi keynesiani sostengono che lo stimolo di bilancio, di qualunque genere sia, è efficace contro le crisi. La loro strategia è sconfiggere gli unici rivali che possono contare su una certa popolarità, i neoclassici, deridendo la loro visione per cui il calo occupazionale comporta una contrazione dell'offerta di manodopera.

Ora la teoria neoclassica dell'equilibrio, vista con scetticismo da alcuni macroeconomisti, ha trovato nuovi seguaci, convinti che, eccezion fatta per i casi di decisioni politiche errate, le recessioni, anche quelle grandi, sono provocate da eventi di mercato casuali e sono corrette da adeguamenti del mercato. Lo stimolo alla domanda non è di alcuna utilità, perché non c'è una carenza sistematica di domanda.

I portavoce di queste tendenze conoscono poco le prospettive teoriche emerse in campo macroeconomico negli ultimi cento anni. I keynesiani sembrano non aver studiato Keynes; i neoclassici non hanno letto o hanno letto male Hayek: non c'è da stupirsi che gli errori abbondino.

Quello dei keynesiani consiste nel partire dal presupposto che tutte le crisi siano il prodotto di problemi di coordinamento, aspettative errate che provocano deficit di domanda. Avendo modellizzato gli effetti delle aspettative decenni fa, so bene che le aspettative hanno conseguenze. Convengo sul fatto che le aziende apparentemente hanno sottovalutato tagli e riduzioni dei prezzi dei concorrenti; questo eccesso di ottimismo segnalava una carenza di domanda di prodotti e manodopera, e perciò qualunque stimolo avrebbe potuto avere un effetto keynesiano. Questo ottimismo è stato di certo estromesso dal sistema. Pompare la domanda di consumi o la domanda pubblica spingerebbe al rialzo i tassi di interesse e al ribasso i prezzi delle attività, forse abbastanza da distruggere più posti di lavoro di quelli creati.

L'errore dei neoclassici è il precetto secondo cui l'occupazione totale, anche se colpita da shock, è sempre diretta verso un livello di normalità. Per questa visione, l'occupazione è indifferente alle variazioni di una domanda specifica. Se dite loro che i consumi sono crollati, dicono che i mercati risponderanno abbassando i tassi d'interesse fino a quando gli investimenti avranno colmato il divario. Se dite loro che gli investimenti aziendali sembrano fiacchi e non potranno contare sull'aiuto di un altro boom dell'immobiliare, dicono che un deprezzamento del tasso di cambio colmerà il divario facendo crescere le esportazioni. Non capiscono che i tassi di interesse non possono scendere di molto in un'economia aperta, e che una valuta più debole ha effetti contrattivi sull'offerta di produzione che potrebbero vanificare l'espansione che deriva dagli effetti sulla domanda di esportazioni e sulla domanda di importazioni.

Questi errori inducono gli analisti a cullarsi nella falsa sensazione che sia in vista una ripresa, grazie alla spesa pubblica o alle capacità autocorrettive delle forze di mercato. Per come la vedo io, lo stato deficitario dei bilanci di famiglie, banche e molte aziende preannuncia una crisi strutturale di lunga durata. L'occupazione tornerà a salire, velocemente o lentamente, solo se sarà trainata dalla domanda di investimenti. Non è affatto chiaro se la spesa pubblica in infrastrutture potrà dare una mano, tenendo conto degli effetti sull'occupazione legati agli aumenti delle tasse necessari per finanziarla.

L'errore di fondo è la stravagante idea che sia stato il disallineamento degli incentivi nelle banche a provocare la bolla immobiliare (bolla che, quando è scoppiata, ha scosso l'economia nelle fondamenta). Tutti possono convenire che l'incremento del credito e dell'edilizia si è scontrato con lo sgradevole dato di fatto che i costi aumentano quando la produzione cresce. Per questo i prezzi sono saliti. Questa analisi non basta a spiegare la brusca impennata dei prezzi delle case in quattro anni, di oltre il 60 per cento.

Per spiegare un incremento tanto forte, dobbiamo ammettere che hanno giocato un ruolo le aspettative. Gli speculatori apparentemente prevedevano un aumento marcato dei prezzi delle case, e i prezzi sono decollati, e hanno continuato a salire nella previsione che ci si stava avvicinando a quei prezzi. Le banche, vedendo che le case offerte come garanzia valevano sempre di più, hanno risposto offrendo sempre più mutui.

Da questo punto di vista, è la speculazione che ha trainato la crisi. Il disallineamento degli incentivi non era sufficiente, e nemmeno necessario. Le bolle sono nate molto prima dei bonus. La crisi sarebbe potuta avvenire anche con il settore finanziario degli anni Cinquanta. La lezione che la crisi insegna, anche se ancora non è stata colta, è che non c'è alcuna magia nel mercato: le aspettative alla base dei prezzi delle attività non possono essere "razionali" rispetto a un modello noto e concordato, perché tale modello non esiste.

  CONTINUA ...»

4 novembre 2009
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