Ormai è evidente che la risposta al problema delle liste elettorali verrà solo dal tribunale amministrativo. Tuttavia un primo risultato è già evidente. Autorevoli esponenti del Popolo della libertà hanno smesso di usare i toni aggressivi e persino minacciosi della prima ora, quando rivendicavano un presunto diritto di non rispettare i criteri della legalità. Gli stessi criteri, peraltro, a cui sono tenuti tutti i cittadini nella vita di ogni giorno. Si sono stemperate le voci che denunciavano presunti «complotti» e fantomatici «golpe» della magistratura. Così le manifestazioni, quando ci sono, appaiono di profilo minore. Si riconosce ormai che il pasticcio è imputabile per intero agli emissari del Pdl, nonché a oscuri giochi di potere.
È un primo passo. Dalla vicenda si esce innanzitutto con un atteggiamento sobrio e con un alto livello di rispetto istituzionale. Non è un caso se Berlusconi, a differenza di alcuni suoi collaboratori, si sia astenuto dal soffiare sul fuoco e abbia scoraggiato il ricorso alla piazza. Proprio perché la questione è seria, essa va affrontata con la cautela che ci si attende dal capo del governo.
Al crocevia di tutti i passaggi c'è il Quirinale. Non perché sia responsabilità di Napolitano sbrogliare la matassa, come si pretendeva nei giorni scorsi negli ambienti della maggioranza. Ma per la semplice ragione che nessuna via d'uscita, che non sia la mera attesa della pronuncia dei tribunali, può fare a meno dei buoni uffici del presidente della Repubblica.
Berlusconi lo ha compreso talmente bene che la giornata di ieri è vissuta a Palazzo Chigi intorno all'attesa per l'incontro con il capo dello stato. Questi è l'unico che può – se vuole e se ricorrono le condizioni – riannodare i fili spezzati e raccogliere il consenso dell'opposizione su di un'ipotesi realmente «bipartisan». Fino al rinvio tecnico delle elezioni? Al momento non c'è questa ipotesi. E non a caso i radicali hanno rilanciato: semmai il rinvio deve riguardare tutte le regioni, non solo Lombardia e Lazio. Proposta estrema e clamorosa che pure sembra a molti la più «costituzionale». Ma naturalmente non è di questo che si sta parlando oggi. La verità è che il premier ha bisogno del Quirinale come mai dall'inizio della legislatura. Sembrano remoti i tempi in cui si parlava di conflitti istituzionali e di resa dei conti. Proprio il caos di questi giorni dimostra invece i limiti politici del governo e suggerisce un maggiore senso della misura.
Il dato è che Napolitano non ha alcuna voglia di essere risucchiato nel «pasticcio» creato dal centrodestra e lo ha fatto capire con chiarezza. Del resto, sono pendenti i vari ricorsi al Tar. Il presidente ha lasciato, come è ovvio, all'esecutivo il compito di indicare una rotta. Ma nessuna soluzione di tipo legislativo, a cominciare dal decreto, è possibile se manca un'intesa preliminare tra le maggiori forze presenti in Parlamento. In materia elettorale non si scherza ed è impensabile che la maggioranza legiferi da sola, tanto più che il testo dovrà essere controfirmato dal Quirinale. Sotto questo aspetto il colloquio di ieri sera è stato piuttosto esplicito.
Il problema rimane dunque aperto, soprattutto per la Lombardia. La domanda è: fino a che punto l'opposizione dirà «no»? Finora il Pd di Bersani si è attenuto alla linea intransigente. Ma forse non tutte le carte sono sul tavolo. E se l'opposizione alla fine contribuirà a risolvere la crisi, è chiaro che vorrà far pagare qualche prezzo a Berlusconi.