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RIGORE E SVILUPPO / Vogliamo un'Europa più tedesca o più greca?

di Carlo Bastasin

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5 Marzo 2010
Vogliamo un'Europa più tedesca o più greca?

Un'Europa tedesca o una Germania europea? Questo interrogativo, ai tempi in cui Thomas Mann lo evocò, era lo specchio di tragedie esistenziali e di fallimenti politici. Oggi è un'alternativa che investe gli europei nella loro capacità di progettare il futuro. Pone su una bilancia categorie morali e politiche: solidarietà e benessere, sviluppo e comunità di destino.
Sulla strada europea la crisi greca ha aperto un bivio imprevisto. Il buon esito dell'asta dei titoli pubblici di ieri fa pensare che la crisi fiscale di Atene possa tornare sotto controllo. Ma anche in questa benevola prospettiva, come potranno coesistere negli anni a venire economie tanto diverse come quella greca e quella tedesca? Come riavvicinare la capacità competitiva greca a quella tedesca? Deve essere cioè la Germania a rivedere la propria supremazia commerciale o devono essere i paesi ritardatari a inseguirne l'esempio?
Ma qual è l'esempio tedesco? Tre luci e tre ombre: da un lato credibilità nella disciplina fiscale, straordinario successo nell'export, elevata capacità di risparmio; dall'altro lato bassa crescita interna, scarsa efficienza nella parte dell'economia non esposta alla concorrenza e cattive condizioni del sistema bancario. Nel complesso le luci prevalgono: il successo sui mercati globali continua a garantire una crescita dell'economia tedesca agganciata al riequilibrio economico globale che ha spostato le fonti della crescita dall'Europa e dagli Stati Uniti verso l'Asia.
La Germania riesce così ad avere un avanzo nelle partite con l'estero, un eccesso di risparmio che può essere investito all'estero in vista dell'invecchiamento della popolazione tedesca e della continua debolezza del mercato interno. L'eccesso di risparmio permette infatti anche di finanziare eventuali disavanzi fiscali futuri. Così il debito pubblico tedesco non spaventa i mercati pur essendo in rapporto al Pil del 40% superiore a quello spagnolo (73% contro 54%). Per rafforzare la credibilità fiscale, la Germania ha adottato lo scorso anno un istituto di rango costituzionale che impegna i futuri governi a evitare disavanzi di bilancio.
Debiti pubblici crescenti possono frenare lo sviluppo perché riducono i margini per investimenti pubblici importanti, come l'istruzione o le infrastrutture, e riducono la redditività attesa degli investimenti (e quindi l'offerta di capitale) a causa del più alto livello delle tasse. Ma l'impegno tedesco sembra motivato soprattutto dalle impressionanti stime sul calo demografico in atto. Da un punto di vista politico, ancora una volta, l'esempio tedesco sembra segnalarsi per la capacità di affrontare i problemi di lungo termine. Una capacità politica che non ha nulla di eroico perché semplicemente intercetta il consenso dell'opinione pubblica.
Il modello orientato all'export ha un'attrattiva maggiore di quanto si creda. Chi ne critica la dipendenza dalla domanda interna dei paesi europei sottovaluta la trasformazione prodotta dalla crescita del commercio su scala globale. Da uno studio in corso al Peterson Institute for International Economics di Washington emerge che vantaggi comparativi limitati stanno producendo aumenti di export in volume molto maggiori di un tempo grazie alle dimensioni dei nuovi mercati emergenti.
Riforme strutturali che accrescono la produttività di un paese vengono cioè premiate da incrementi più che proporzionali dell'export. La crescita economica che ne risulta migliora anche l'occupazione interna e le entrate fiscali del paese. Il riequilibrio nei conti pubblici a sua volta crea consenso nell'opinione pubblica che adotta un atteggiamento positivo nei confronti delle riforme stesse e di politiche che favoriscono la produttività degli esportatori tedeschi. Al punto da rinunciare ai benefici immediati che ne derivano, come è avvenuto di recente quando sia le imprese tedesche sia l'opinione pubblica si sono espresse contro il taglio delle imposte studiato dalla nuova coalizione di governo.
L'attenzione per la competitività sta raggiungendo livelli inusuali. L'accordo salariale delle imprese metallurgiche siglato il 18 febbraio scorso prevede aumenti nominali medi annui dell'1,4% e introduce elementi di flessibilità nell'orario settimanale e nell'uso del part time. In alcuni settori di servizi a basso valore aggiunto, le imprese non applicano gli aumenti al 90% dei lavoratori non iscritti al sindacato. Una recente sentenza della Corte federale del Lavoro ha incoraggiato la frammentazione dei grandi sindacati pubblici, mentre una riforma dei centri di collocamento ha aperto la strada a nuove forme di lavoro flessibile. Anche la nuova legislazione sui sussidi di disoccupazione, che pure ne rafforza l'impianto, accentua la lotta agli abusi di chi preferisce ottenere i sussidi anziché accettare una nuova occupazione. Perfino alcuni "saggi" - il gruppo dei consiglieri indipendenti del governo - hanno criticato l'eccesso di moderazione salariale come una volontaria diminuzione del potere d'acquisto delle famiglie. Dal punto di vista europeo quella tedesca è concorrenza condotta con tagli al costo del lavoro non giustificati dall'andamento della produttività.
Infatti se la Grecia e altri paesi dell'euro hanno ecceduto nell'aumentare i salari rispetto alla produttività, la Germania tra il 2005 e il 2009 ha avuto aumenti salariali negativi in rapporto alla produttività. L'Istituto federale di statistica ha comunicato che nel 2009 i salari nominali dei tedeschi sono scesi. Lo squilibrio della bilancia dei pagamenti che ne è derivato costringerà paesi come la Grecia a lunghi anni di rallentamento della domanda. Caleranno dunque anche le importazioni dalla Germania.
  CONTINUA ...»

5 Marzo 2010
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