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INTERVENTO / Per l'arbitrato un percorso con garanzie

di Michele Tiraboschi *

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5 Marzo 2010

Liberare il lavoro dal peso della cattiva regolazione. Da un formalismo giuridico esasperato. Causa ed effetto di un contenzioso abnorme che assorbe ingenti risorse e paralizza la libertà di azione delle imprese senza portare alcun contributo concreto alla tutela dei lavoratori.
La cifra del riformismo in materia di lavoro è tutta qui. Nella ricerca di tutele moderne e più effettive. Nella promozione di un quadro normativo fatto di regole semplici e condivise. Come tali maggiormente idonee a premiare il rischio d'impresa e la partecipazione dei lavoratori. A stimolare qualità e produttività del lavoro e la propensione ad assumere. A cementare relazioni di lavoro di tipo fiduciario e cooperativo.
La riforma della giustizia del lavoro è stata, non a caso, uno dei tasselli centrali di tutti i più recenti progetti di modernizzazione. In un quadro evolutivo delle relazioni di lavoro – si sosteneva già nel Libro Bianco del 2001 – la prevenzione e la composizione delle controversie deve ispirarsi a criteri di equità ed efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situazione attuale. Sono oltre 400mila i nuovi procedimenti in materia giuslavoristica o previdenziale che, ogni anno, intasano i tribunali. Una causa dura intorno ai due anni e mezzo. In alcune regioni la media si avvicina addirittura a quattro. Per conoscere le sorti di una controversia occorre attendere mediamente, tra primo e secondo grado, circa cinque anni, che possono arrivare a sette in caso di ricorso in Cassazione. Siamo davvero lontani dai principi dell'"equo processo" di cui parla la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Tanto più che la tempestività della giustizia è il principale parametro per misurare effettività ed efficacia delle regole sostanziali del diritto del lavoro. Aspettare per anni una decisione, in un rapporto che si regge sul soddisfacimento dei bisogni primari della persona, significa negare alla radice l'effettività delle tutele.
I tempi di attesa e l'incertezza delle regole gravano anche sulle decisioni dei datori di lavoro. Frenano forza e competitività delle nostre imprese. Rimanere per quasi cinque anni nell'incertezza di veder convalidata o meno una decisione organizzativa in materia di assunzione o licenziamento aumenta in modo spropositato l'entità dei risarcimenti e alimenta un'imponente fuga nel sommerso.
Ecco perché Marco Biagi – in un saggio presentato al Comitato scientifico di Confindustria dell'aprile 2001 e pubblicato sulla «Rivista italiana di diritto del lavoro» diretta da Pietro Ichino - sosteneva la necessità di rivisitare radicalmente l'attuale sistema per metterlo in linea con le esperienze europee. «Il cuore della riforma – proponeva Biagi in questo saggio integralmente trasfuso nel disegno di legge del 2001 – dovrebbe essere il ricorso all'arbitrato invece che al giudice».
Il collegato lavoro approvato dal Parlamento non riproporre, come taluno ha strumentalmente sostenuto, la vecchia polemica dell'articolo 18. La questione non è più all'ordine del giorno ed è stata superata, su un piano sostanziale, dal recente accordo tra Governo, Regioni e parti sociali sulla formazione. È il diritto alla conoscenza la vera tutela post-moderna che unisce lavoratori e imprese in un mercato del lavoro profondamente cambiato che riconosce e premia occupabilità e adattabilità delle persone.
L'innovazione normativa non è comunque di poco conto perché affida alle parti sociali la possibilità di ammettere, mediante accordi collettivi, l'arbitrato di equità, cioè l'arbitrato che cerca la giustizia del caso concreto. Nessuna imposizione, perché la materia è saldamente nelle mani delle parti sociali, che decideranno se e come farne uso. E anche laddove l'arbitrato venisse introdotto dalla contrattazione collettiva sarebbe il singolo lavoratore – con il sostegno e l'eventuale controllo di commissioni di certificazione della volontà delle parti – a decidere liberamente se ricorrere a questo canale alternativo o continuare ad affidarsi alla tutela giurisdizionale ordinaria. Come già accaduto per la legge Biagi non servono ora guerre di religione ma solo la volontà di sperimentare per cambiare pragmaticamente una cultura del lavoro e un'attitudine al conflitto che ci vede oggi tutti sconfitti.

Tiraboschi@unimore.it

* Tiraboschi è docente di Diritto del lavoro e direttore scientifico della Fondazione Marco Biagi presso l'università di Modena e Reggio Emilia

5 Marzo 2010
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