Perché il centro-destra italiano è spesso riuscito, dopo la fine della prima Repubblica, a capitalizzare elettoralmente sulla crisi identitaria del centro-sinistra, ma non è riuscito ad affermarsi in pieno come una forza politicamente matura, e culturalmente egemonica? Di là dalle affannate cronache di questi giorni (gli incidenti procedurali nella presentazione delle liste per le votazioni regionali), che cosa manca al centro-destra per diventare qualcosa di più e di meglio che un cartello elettorale vincente?
Per rispondere alla domanda occorre allontanarsi dalla contingenza immediata, acquisendo una profondità di campo sufficiente per guardare non soltanto alla politique politicienne, ma anche alle culture politiche. Quelle culture che in Italia (si dice da prestigiose tribune giornalistiche) sarebbero morte tutte vent'anni orsono, tra la caduta del muro di Berlino e il maremoto di Tangentopoli: senza che più si affacciasse sulla nostra scena pubblica un'ombra d'idea nuova, un singolo principio vitale, una qualche visione del rapporto fra presente e avvenire.
In realtà, questo mantra catastrofistico - il paesaggio politico italiano come un cumulo indifferenziato di rovine ideologiche - nasconde differenze molto concrete fra la vicenda culturale del centro-destra e quella del centro-sinistra. Di fatto, durante il ventennio che gli storici dovranno pur qualificare come "età berlusconiana", il centro-destra ha rinunciato a interpretare politicamente un certo numero di bisogni sociali che il centro-sinistra (seppure in modo confuso, e senza volerlo sbandierare troppo: quasi vergognandosene) ha invece continuato a riconoscere come urgenti.
Anzitutto, il bisogno di stato. Cioè l'idea che sia la convivenza civile, sia la prosperità economica di una nazione abbisognano d'istituti che veglino sul rispetto della libertà d'informazione, sull'esercizio imparziale della giustizia, sull'osservanza delle regole di mercato, sulla tutela dei diritti delle minoranze. Quanto di più lontano dalla cultura insieme privatistica e antistatuale dello slogan che meglio riassume l'ideologia di Forza Italia e della Lega: «Padroni in casa propria».
Inoltre, il bisogno d'equità. Che non significa più l'ideale socialista di un'abolizione di tutte le differenze di classe o di ricchezza o di status, ma significa pur sempre l'idea che alla politica moderna compete di garantire - almeno - il rigore del prelievo fiscale, inteso come strumento di redistribuzione del reddito. A suo tempo, un ministro del centro-sinistra venne pesantemente deriso per avere sostenuto che «le tasse sono una cosa bellissima»: ecco una gaffe che nessun ministro del centro-destra ha mai rischiato di commettere. Per non parlare di un presidente del Consiglio, cui capitò di elogiare in pubblico la teoria e la pratica dell'evasione fiscale.
Se il centro-destra non è riuscito, negli ultimi vent'anni della storia italiana, a sfondare culturalmente oltreché elettoralmente, forse ciò si deve anche al fatto che una cospicua minoranza del paese è rimasta affezionata a bisogni come questi: il bisogno di stato, il bisogno di equità. A dispetto della moda argomentativa (per gli intellettuali nostrani quasi un vezzo) secondo cui il centro-sinistra dovrebbe smetterla di cullarsi nell'illusione di una sua presunta diversità antropologica, forse in Italia le cose stanno proprio così. Una metà scarsa del paese continua a riconoscersi in alcune idee certamente vecchie, ma non perciò irrimediabilmente consunte: l'idea che i magistrati meritino rispetto, l'idea che le tasse vadano pagate, l'idea che repubblica voglia dire «patrimonio di tutti».
In altre parole, l'egemonia politico-culturale del centro-destra italiano ha trovato il suo limite storico lungo la frontiera dei valori. Non già - sia chiaro - perché tutti i dirigenti e tutti gli elettori del centro-sinistra siano esempi di specchiate virtù: le cronache della nostra attualità s'incaricano quotidianamente di testimoniare il contrario. Piuttosto, perché il centro-destra italiano (con la significativa eccezione di Gianfranco Fini e dei suoi più stretti seguaci) ha rinunciato del tutto a discutere un'agenda valoriale che detta legge da vent'anni: l'agenda di Silvio Berlusconi, con gli appunti a margine di Umberto Bossi.