«We opted for Herman, as he is not French or German and... he is not Tony Blair» («Abbiamo scelto Herman perché non è francese né tedesco e... non è Tony Blair»), hanno scherzosamente cantato i corrispondenti britannici a Bruxelles, durante lo spettacolo di cabaret di beneficenza, andato in scena lo scorso fine settimana nella capitale belga. Il bersaglio della serata è stato il volto nuovo dell'Europa, Herman Van Rompuy, il leader del Belgio investito dal Trattato di Lisbona della responsabilità di guidare i 27 capi di Stato Ue.
Molto si è ironizzato, anche in consessi ben più seri, sulla mancanza di carisma e di esperienza internazionale di Van Rompuy. Anche da queste colonne, ci si è rammaricati che la scelta del primo presidente stabile del Consiglio Ue non fosse caduta su un leader più esperto. Ma va dato atto al 62enne cristiano-democratico fiammingo, abile navigatore di scuola gesuita nelle infide acque della melmosa politica belga, di essersi fatto apprezzare per lucidità e visione anche sulla scena europea. Il topolino partorito dalla montagna di Lisbona ha dimostrato di saper ruggire.
Interessante è il discorso pronunciato da Van Rompuy la settimana scorsa al Collegio d'Europa di Bruges. Un intervento, come ha notato anche Tony Barber sul Financial Times, che è uscito dalla scontata liturgia comunitaria, delineando i rischi che l'Europa sta correndo di venire marginalizzata sulle scena internazionale. E ha indicato come alla globalizzazione economica seguita al crollo del muro nell'89, sia succeduta una fase di globalizzazione politica, indicata dalla nascita del G-20 e dal summit di Copenhagen sul clima. Eventi nei quali l'Unione Europa ha giocato un ruolo propulsivo iniziale, ma ha poi rischiato di finire in disparte. Perché, se nel precedente frangente di globalizzazione economica tutti erano vincenti, nell'attuale fase di ridefinizione dei rapporti politici di forza sulla scena mondiale, ci sono vincitori e perdenti, osserva Van Rompuy. Per questo, ora più che mai, i membri Ue devono «essere forti e uniti».
Il presidente europeo ha identificato in una strategia economica incisiva e una politica estera comune i due obiettivi decisivi. Fare del Consiglio europeo quel "governo economico" dell'Unione tanto vagheggiato è la meta. Un compito tanto più arduo nel momento in cui emergono divergenze all'interno della stessa Ue su un eventuale sostegno alla Grecia, da affidare all'eurozona secondo l'asse franco-tedesco, o da lasciare all'Fmi per la Gran Bretagna e altri paesi fuori dall'euro.
In politica estera Van Rompuy identifica la necessità dell'Europa di muoversi su due binari. In primis potenziare il proprio ruolo nelle nuove forme di governance mondiale come il G-20, perché ormai tanti temi chiave, dai regolamenti bancari alle politiche energetiche, non possono più essere definiti solo a livello comunitario, ma vanno concordati sul piano globale. In questa chiave, l'eurozona deve pure riflettere su come migliorare la propria rappresentanza all'interno dell'Fmi (seggio unico?). Il secondo binario è rafforzare le relazioni con i partner chiave: Stati Uniti, Canada, Russia, Cina, Giappone, India e Brasile. «Al summit di Copenaghen - osserva Van Rompuy - abbiamo constatato che l'Europa non può più brillare solo con la forza del proprio esempio».
Fino a che punto i 27 leader europei avranno voglia di mettere in secondo piano il proprio particulare nazionale e seguire il ruggente topolino fiammingo resta da verificare. Banco di prova decisivo sarà il semestre che si aprirà il 1° luglio, quando il Belgio assumerà la presidenza rotante dell'Unione Europea. A quel punto Van Rompuy non dovrà più pestarsi i piedi con un presidente rivale, come accade ora con José Luis Zapatero, e potrà in tutta tranquillità stabilire gli standard della nuova leadership europea. E ci dovrà far capire se l'Unione Europea sarà destinata a squittire come topo o a ruggire come leone.