Una delle questioni centrali affrontate nell'Enciclica papale Caritas in Veritate riguarda i rapporti tra etica ed economia. È il momento giusto per discuterne, anche perché la crisi finanziaria ha sollevato nuovi interrogativi proprio su questi aspetti.
Talvolta si pensa che etica ed economia siano due mondi distinti e separati. Non è così. Non lo è innanzitutto con riferimento al metodo di analisi delle scienze economiche. In base a un popolare stereotipo, le scienze economiche si basano sul presupposto che gli individui massimizzano solo il benessere materiale e pensano solamente al profitto. In realtà il metodo dell'economia è l'"individualismo metodologico". Esso muove dalla premessa che i fenomeni economici e sociali vanno spiegati a partire dai comportamenti individuali. Per spiegare questi ultimi, dobbiamo presupporre che l'individuo si comporti "in modo appropriato alla situazione". Cioè l'individualismo metodologico e il metodo dell'economia si basano sulla logica situazionale: spiego il comportamento spiegando la situazione. Ma "in modo appropriato alla situazione" non vuol dire massimizzare il benessere materiale. Al contrario, questo principio è compatibile con qualunque ipotesi sulle motivazioni individuali. In altre parole, non dobbiamo confondere l'individualismo con l'egoismo, così come l'altruismo non va confuso con il collettivismo.
Economia ed etica non sono separate anche in un secondo senso, ancora più rilevante. Come è sottolineato da un'antica tradizione di pensiero liberale, il buon funzionamento di un'economia di mercato e di uno stato di diritto si basano anche su presupposti etici che devono essere condivisi e su un particolare sistema di valori.
Ricordo due idee di questa tradizione. La prima è l'idea che il rispetto e l'applicazione dei contratti non può fare affidamento solo sulla legge. Occorre anche che gli individui abbiano interiorizzato le norme che governano gli aspetti contrattuali, indipendentemente dal timore delle sanzioni per chi è colto a violare lo spirito o la forma della legge.
Il rispetto per i diritti di proprietà, il mantenimento della parola data e degli impegni presi, il rispetto delle aspettative e delle intenzioni tra le parti contraenti devono discendere anche da un comune sistema di valori, non solo dagli incentivi economici o dal timore di essere sanzionati dalla legge. Senza questi presupposti, un sistema basato sul libero scambio difficilmente potrebbe funzionare.
Una seconda idea è l'importanza dell'etica professionale. Indipendentemente da incentivi e sanzioni, chi svolge determinate professioni ha obblighi e responsabilità anche morali nei confronti della società: il medico nei confronti dei pazienti, l'avvocato verso i clienti o, per ricordare un esempio recente in cui questo principio era evidentemente venuto meno, l'auditor verso i risparmiatori.
Questa tradizione di pensiero liberale trova conferma anche in una recente letteratura empirica in economia e scienze politiche. La storia ci mostra come società e paesi traggano il loro successo anche dal radicamento e dalla diffusione tra i cittadini e nelle istituzioni di queste regole di comportamento e dalla forma che esse assumono. Una distinzione importante a questo proposito è tra norme di moralità limitata o generalizzata. La moralità limitata applica la nozione di giusto o sbagliato solo a un certo ambito di interazioni sociali: la famiglia, il clan, la comunità a cui si appartiene. Al di fuori di questo ambito, quasi tutto è moralmente permesso. La moralità generalizzata si fonda invece sul presupposto che la nozione di giusto o sbagliato debba valere universalmente, nei confronti di tutti gli individui.
Non sorprendentemente, la diffusione di norme di moralità generalizzata si accompagna alla diffusione di fiducia reciproca tra estranei, e spinge a forme di organizzazione economica, sociale e politica più efficienti e progredite. Un'abbondante e convincente evidenza empirica mostra che dove vi è più fiducia generalizzata le imprese hanno un'organizzazione più decentrata, l'economia di mercato funziona meglio, vi è più senso civico, anche la partecipazione politica è più attenta al bene pubblico piuttosto che agli interessi di parte. Insomma, numerose ricerche in campo economico e politologico suggeriscono che la diffusione di norme di moralità generalizzata sono un ingrediente centrale per spiegare lo sviluppo economico e il buon funzionamento delle istituzioni.
Tuttavia la tradizione liberale si ferma qui. Essa sottolinea l'importanza di condividere un particolare insieme di regole di comportamento che facilitano la convivenza sociale. Ma si guarda bene dal chiedere che vengano condivisi anche i fini, se non nel senso del principio kantiano, che gli individui devono sempre essere riconosciuti come fini e mai usati come mezzi per raggiungere un altro fine. Al contrario, nel pensiero liberale l'economia di mercato in uno stato di diritto è molto più di un mezzo per produrre ricchezza e allocare con efficienza risorse scarse. Esso è anche e soprattutto un sistema che consente a ogni individuo di perseguire il suo fine, i suoi obiettivi personali, di autodeterminarsi in linea con il suo particolare sistema di valori. Possiamo invocare un legame più stretto di così tra etica ed economia, o invocare principi etici più forti, senza rinnegare la visione liberale dell'economia di mercato in uno stato di diritto? In particolare senza correre il rischio di interferire con la libertà individuale di autodeterminarsi? Qual è il ruolo della politica al riguardo? Come evitare che anche la politica diventi occasione di abusi e di sopraffazione, magari nel nome del bene comune, come è avvenuto in passato? Queste domande entrano in dialettica con l'enciclica papale e aprono un serio e opportuno confronto. Nel rispetto di un altro importante principio caro alla tradizione liberale: che la verità non è manifesta; e che il modo migliore per progredire nella ricerca della verità è cercare di correggere gli errori. Il che richiede un dibattito aperto e critico tra diversi punti di vista.
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