È cominciata come crisi finanziaria. Che ha infettato l'economia reale. Poi la crisi finanziaria si è attenuata. Ma l'economia reale è ancora infetta.
Queste secche proposizioni potrebbero ben descrivere il punto in cui ci troviamo nell'evoluzione di una crisi che ha esaurito i superlativi, sia nel bene sia nel male. Il "male" è la più grave recessione del dopoguerra. Il "bene" sta nella più forte risposta di politica economica mai orchestrata. Ma, a riprova della difficoltà di distinguere il bene dal male, c'è chi teme che l'imponente pronto soccorso – monetario e di bilancio – prepari tempi difficili, sfregiati dall'inflazione e macchiati dai debiti pubblici.
L'armamentario cui le banche centrali hanno fatto ricorso è stato in effetti notevole. E non ci si è limitati alle classiche armi del taglio dei tassi per contrastare il marasma in cui era piombato il sistema finanziario. Le autorità monetarie hanno riscritto il manuale del "buon banchiere centrale" facendo ricorso a tecniche inedite di "espansione quantitativa" della moneta. All'imprudente e sconsiderata innovazione finanziaria dei privati, che ci ha cacciato in questo pasticcio, le banche centrali hanno risposto con un'efficace e calibrata "innovazione finanziaria del central banking". In queste avventure in campi ancora vergini di nuove tecniche d'intervento si è distinta la Federal Reserve, che si è precipitata al soccorso del sistema finanziario col vigore e la pazienza di un meccanico che, munito di una cassetta degli attrezzi e di un oliatore pieno di lubrificante, entra nella sala macchine dell'economia finanziaria e si china su ogni rotella, cerniera, puleggia, albero rotante: svita, riavvita, tornisce, olia...
Nelle cifre della crisi sono entrati i trilioni (i mille miliardi). Le banche centrali hanno aperto le chiuse. E il mare di liquidità che ha inondato i mercati ha tenuto a galla tutte le barche. Anche quelle di paesi che parevano sull'orlo del crollo, come l'Islanda, mentre le garanzie sui depositi e talora anche sulle obbligazioni bancarie hanno fermato le corse agli sportelli e invertito il dilagare della sfiducia. La stessa manovra dei tassi non ha solo sostenuto le componenti della domanda sensibili al costo del danaro. Ha anche, e forse soprattutto, sostenuto i bilanci delle banche: si potevano rifornire di danaro a vil prezzo e prestarlo senza ripercuotere interamente sui prenditori di fondi il minor costo della raccolta.
Oggi sui mercati finanziari è tornata la normalità: le banche fanno utili e cercano di ricapitalizzarsi sui mercati facendo a meno degli aiuti di stato. Tutto bene, dunque? Sì e no. Come afferma il Fondo monetario, ci sono ancora molte perdite sui titoli tossici che le banche non hanno ancora registrato e il processo di ricapitalizzazione deve continuare. Ma c'è chi esprime timori di più lungo termine. Tutta questa liquidità che è stata creata non finirà per provocare inflazione?
Fortunatamente, la risposta a questa domanda è consolante. I "gendarmi strutturali" che tengono a bada l'inflazione – prodotti a basso costo dai paesi emergenti, guadagni di produttività ancora da sfruttare, arcigna sorveglianza delle banche centrali, attese inflazionistiche ormai domate presso le famiglie, intensificazione della concorrenza – non sono spariti e marcano stretto la dinamica dei prezzi. A questa pressante vigilanza si accompagna la possibilità tecnica, per le banche centrali, di riassorbire la liquidità creata con strumenti vecchi e nuovi (magari l'emissione, in prima persona, di titoli di debito). Insomma, fra recinti strutturali, possibilità tecnica e volontà politica, è facile concludere che le paure dell'inflazione sono destinate a rimanere tali.
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