Sarà finalmente la volta buona? Con il decreto legislativo che giovedì ha ottenuto il via libera del parlamento e che ora attende il varo definitivo in Consiglio dei ministri, la cura "Brunetta" per riformare la pubblica amministrazione realizza un obiettivo importante: introdurre norme più severe per premiare e punire i dipendenti pubblici e per migliorare l'efficienza degli uffici pubblici.
In realtà, già da molti anni il governo e il Parlamento si sono cimentati in questa impresa. E sempre con poco successo.
Già nel 1992, con la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici inserita tra le misure d'emergenza varate dal governo in mezzo a una crisi senza precedenti della nostra moneta (che portò a una "decisa" svalutazione), si parlò di svolta epocale.
In effetti, a rileggere la legge delega di allora (n. 421/1992) e il decreto legislativo di attuazione (n. 29/93) ritroviamo molti concetti presenti nella riforma di oggi.
L'idea di privatizzare il rapporto di lavoro, di accrescere gli spazi della contrattazione collettiva con un negoziatore forte per la parte pubblica (l'Aran) e di attribuire ai dirigenti pubblici i poteri "del privato datore di lavoro" mirava proprio a creare le premesse per sanare i guasti di decenni e decennni di lassismo.
Il mix di misure attese grazie a quella riforma era davvero innovativo.
Il principio del merito per la selezione e la promozione del personale; gli incentivi economici non distribuiti più a pioggia ma legati alla produttività individuale; la mobilità del personale per porre rimedio agli squilibri territoriali (uffici sempre sguarniti al Nord e sovraffollati nel Mezzogiorno); la valorizzazione della dirigenza, limitando il ruolo dei vertici politici alla definizione degli indirizzi e al controllo ex post: questi e altri principi segnarono, almeno sulla carta, un cambiamento radicale.
Nel 1998 le norme furono perfezionate, in particolare, privatizzando anche i dirigenti generali, e attribuendo le controversie in materia di lavoro pubblico al giudice ordinario.
Non fu un percorso facile. Ma la riforma - contestata soprattutto dai dirigenti - passò indenne anche il vaglio della Corte Costituzionale, che invece bocciò i tentativi di introdurre forme estreme di "spoil system" che ponevano i dirigenti alla mercé dei politici.
Che cosa accadde, poi? La verità è che il passaggio da norme così avanzate alla loro realizzazione pratica si è scontrato in tutto questo arco di tempo con ostacoli insuperabili: contratti collettivi che ripristinavano rigidità e azzeravano ogni tipo di incentivi in nome dell'egualitarismo; norme regionali e degli enti locali anch'essa non in sintonia con lo spirito della riforma; mancata attivazione dei meccanismi di valutazione e di responsabilizzazione dei dirigenti; ruolo debordante dei vertici politici restii a fare un passo indietro, convenienza di tutti a mantenere il clima "del vivi e lascia vivere".
In definitiva, pur con qualche eccezione, poco o nulla è cambiato nonostante l'attivismo del legislatore.
Per questo, quando nel marzo scorso il parlamento ha approvato una delega assai ampia per la riforma del pubblicoimpiego(n. 15/2009) poteva sorgere più di un dubbio: perché ripartire quasi da zero con nuove norme, anziché cercare di far applicare quelle esistenti, magari con pochi ritocchi mirati?
In realtà, rispetto ai tentativi precedenti, la legge delega mirava a introdurre per legge vincoli puntuali non derogabili dalle amministrazioni o in sede di contrattazione collettiva proprio allo scopo di impedire snaturamenti in sede attuativa.
Il decreto legislativo non ha potuto però chiudere il cerchio con norme immediatamente operative e ciò anche per rispettare l'autonomia delle Regioni e degli enti locali costituzionalmente garantita.
Così l'applicazione concreta di molti istituti sarà rinviata nel tempo e c'è il rischio che le norme più innovative perdano di incisività nei vari passaggi a valle del decreto.
Ulteriore conferma del fatto che non basta sfornare norme per cambiare i comportamenti e la cultura di milioni di dipendenti e dirigenti pubblici.